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Cronaca | 05 maggio 2024, 09:02

Farinél/Addio a Cesare Giaccone. La Langa della grande cucina perde uno dei suoi padri nobili

Ci lascia lo chef che disegnava i piatti e cucinava i quadri, l’uomo che fece aspettare anche Robert De Niro, perché “lui sarà Robert De Niro, ma il capretto non cuoce da solo”. Ci lascia, prima di tutto, un amico

Cesare Giaccone - Credits Fondazione Radici/Murialdo

Cesare Giaccone - Credits Fondazione Radici/Murialdo

Erano giorni che non stava bene, dall’amico Bruno Murialdo avevo saputo che faceva una gran fatica a respirare e che quel sorriso così bello e ansimato che caratterizzava Cesare si era spento. Speravo non definitivamente, Cesare combatteva da anni con la malattia e pensavo ce l’avrebbe fatta anche questa volta, forte di quel carattere profondamente langhetto e combattivo che lo caratterizzava.

Di Cesare ho tantissimi ricordi recenti, lo conoscevo solamente da una decina d’anni ma era uno di quei personaggi che avevano sempre un posto nel mio cuore e che ogni tanto, a sorpresa, mi veniva a trovare a Radio Alba trasformando la giornata in una festa.

Cesare sapeva essere tranchant quanto dolce, deciso quanto affettuoso, bastava passare oltre una scorza solo all’apparenza dura per trovare un cuore grande e delle capacità innate che hanno portato la cucina dell’Alta Langa nell’Olimpo dell’enogastronomia mondiale.

La leggenda narra che la fama di Cesare fosse arrivata fino a Hollywood, tanto che Robert De Niro volle assaggiare il celeberrimo capretto pensando di trovarsi in una sorta di fast food di lusso con cibo precotto.

Cesare in quell’occasione fece aspettare il grande attore italo-americano, perché “Il capretto non cuoce da solo”, nemmeno per Robert De Niro. Punto.

Cesare era così, ma il risultato valeva l’attesa e l’ho capito nelle giornate e nei pomeriggi passati a casa sua dove non si poteva andare via senza aver mangiato ed era incredibile constatare come tutto a casa di Cesare fosse più buono: i formaggi, i salumi, persino le olive, tutto ad Albaretto era selezionatissimo con una ricerca quasi maniacale della miglior materia prima.

Un pomeriggio, erano le 16, lo chef, già provato dalla malattia disse: “Vi preparo il pollo”, il pollo è il cibo di quelli come il sottoscritto che non hanno voglia di faticare ai fornelli e quella fu la volta in cui mi chiesi cosa si potesse inventare cucinando il pollo. Bene anche in quell’occasione Cesare mi stupì perché mai avevo mangiato e mai rimangerò un pollo con quel sapore.

Questa mattina apprendendo la notizia della scomparsa di Cesare, una lacrima è sgorgata dai miei occhi ripensando a quel pollo, ripensando a tutto l’amore che lo chef pittore di Albaretto metteva nei suoi piatti. Nella tristezza del momento sono contento di esserci stato quando è stato nominato pittore del Palio e quando gli è stato assegnato il premio Ancalau, il premio a colui che osa, appunto Cesare Giaccone, un uomo a cui sento solo di dire grazie e a cui deve dire grazie tutto il nostro territorio

CHI ERA CESARE GIACCONE?

Nel ristorante di Cesare ad Albaretto sono passati personaggi conosciuti in tutto il Mondo, dal già citato Robert de Niro a Gino Paoli e Paolo Conte, da Giorgio Bocca a Giovanni Arpino, fino ai titolari della cantina più famosa che ci sia: la Romanée-Conti.

Un particolare curioso sta nel fatto che Cesare nacque il 22 novembre 1946 a Lequio Berria perché Albaretto Torre, paese che sarebbe poi diventato famoso in tutto il Mondo grazie al cuoco, sarebbe nato solamente più tardi. 

Quella di Giaccone è la storia di un cuoco- pittore, in entrambi i casi autodidatta, che, in realtà, non ne voleva sapere di mettersi dietro i fornelli. Cesare, infatti, aveva intrapreso il mestiere di muratore rifiutando categoricamente di seguire le orme paterne, gestore della locanda dei cacciatori.

«I pascoli di collina sono stati la mia aula, i boschi le pareti, mucche e pecore i compagni, e come sfondo la profondità e la maestosità oltre la finestra», racconta Cesare ricordando una Langa che oggi non esiste più.

Era la Langa del Dopoguerra, un francobollo di terra tra i più poveri d’Europa, dove la Malora fenogliana è un concetto vivo e ben presente, nonostante siano passati alcuni decenni dagli eventi raccontati nel suo capolavoro.

Cesare sbatte comunque nella cucina perché un giorno l’impresario da cui lavorava da garzone gli chiede di preparagli qualcosa da mangiare. Pochi morsi e il datore di lavoro consiglia al Cesare sedicenne di lasciar perdere carriola e cazzuola e di mettersi a cucinare.

Dal mattone alla maionese il passo diventa breve, Aurelio Scavino intuisce le potenzialità di quel ragazzo e lo porta a lavorare all'hotel-ristorante Sant'Orso di Cogne come aiuto cuoco per la stagione estiva. Il suo apprendistato professionale continua a Torino, prima al Nuovo Regio di Piazza San Carlo, poi al Caval 'd Bronz, in seguito il ritorno a casa con il ristorante di Cesare ad Albaretto della Torre che diventa un punto di riferimento a livello mondiale.

Il ristorante inizia a popolarsi di un’umanità variegata, dove agli amici come Bruno Giacosa, Bartolo Mascarello o Romano Levi, si aggiungono centinaia di avventori disposti a spendere qualsiasi cifra per assaggiare il capretto di Cesare.

Diventa quasi una gara a chi spende di più e Cesare si adatta, ai conti che a volte arrivano a superare il milione di lire alterna i piatti preparati con affetto e passione per gli amici a prezzi popolari.

Come ha scritto Luciano Bertello ben sintetizzando lo spirito di un Robin Hood di Langa: «Per Cesare il conto salato non è fine a sé stesso, ma una forma di rivincita a nome della Langa e della gente umile di lassù nei confronti della Langa grassa del vino e dell’arroganza dell’arricchito».

Ogni tanto sente il bisogno di cambiare aria, come quando nel 1976 Padre Eligio lo chiama per aprire un ristorante di altissimo livello al Castello di Cozzo Lomellina e Cesare si ritroverà a cucinare per una comunità di tossicodipendenti, con la stessa passione di sempre.

Il richiamo di Albaretto è troppo forte e Cesare torna a casa nel 1981 per riprendere da dove aveva smesso. Appena si sparge la voce il ristorante torna a riempirsi e Cesare inizia a dare sfogo all’altra sua passione, la pittura: disegna piatti, impiatta disegni, dà vita a un’esperienza mai vista che tutti bramano.

Nel 2008 l’ennesima svolta con il trasferimento a Fontanafredda fin quando non decide di andare in pensione, 49 anni dopo aver iniziato la propria carriera.

Aveva preso una Langa arretrata che nella guida Michelin nemmeno veniva citata lasciandone un punto di riferimento a livello mondiale per l’alta cucina e per la ristorazione in genere, con meriti enormi. Senza Cesare di Albaretto oggi non saremmo una delle zone con più ristoranti stellati in Europa, traino per migliaia di Osterie, trattorie e locande dove è possibile trovare qualità altissima a un prezzo consono.

IL RICORDO DI ALBERTO CIRIO

"Sono cresciuto nel mito di Cesare di Albaretto, io giovane langhetto che vivevo a Sinio a poca distanza dal suo storico ristorante, dove tutto ebbe inizio.

Cesare Giaccone per noi era quasi una figura mitologica, non uno cuoco tradizionale - allora li chiamavamo ancora così, oggi diremmo chef -, ma un genio, un artista, un uomo che trasformava il tuo pranzo o la tua cena in una esperienza unica e per certi versi misteriosa ed appassionante.

E questo Cesare lo faceva con il suo modo di essere, con il suo volto, le sue espressioni, i suoi racconti che trasformavano un piatto quasi in un romanzo.

A lui dobbiamo molto, come piemontesi e come italiani. A lui che è stato il primo in Piemonte e uno dei primi in Italia a credere nell’eccellenza della nostra ristorazione tradizionale, nel rispetto dei prodotti agricoli, della natura, delle stagioni. Da Cesare mangiavi quello che diceva lui, perché solo lui sapeva dirti ciò che era il meglio in quel determinato giorno. E da Cesare prenotavano da un anno all’altro per trovare un posto, da tutte le parti prima d’Europa e poi del mondo.

Caro Cesare, quanto ci mancherai, ma la tua fama e la tua arte continueranno a vivere nei tuoi figli, nei tuoi allievi e in tutti noi che oggi sentiamo di aver perso come un pezzo del nostro territorio. Ciao grande maestro, o meglio: ciao, Cesare di Albaretto."

Marcello Pasquero

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