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In Breve

Che tempo fa

| 01 ottobre 2014, 08:16

Le buone qualità dell'uva? A grappoli!

Le buone qualità dell'uva? A grappoli!

Quel poco di buono che, secondo me, porta con sé l'autunno, al di là dei deprimenti primi freddi, le giornate che si accorciano di colpo, gli alberi che iniziano a sfoltirsi delle foglie, la natura che si prepara al lungo letargo e, soprattutto, la partenza del conto alla rovescia che porta al mese più triste dell'intero calendario, vale a dire dicembre, ecco, la vendemmia la trovo una cosa che regala allegria.

Sono affascinata dal mestiere del vignaiuolo, pur sapendone pochissimo. E già mi piaceva prima che fare vino diventasse una cosa trendy.

Quando chi beveva era quasi sempre considerato, col piemontesismo, un “ciucatun”, ovvero un avvinazzato. Quando i sommelier potevi immaginarteli solo in un contesto da ristorante chic francese, riferiti a vini con 'château' sull'etichetta. Quando non erano state ancora inventate le enoteche. C'erano le “piole”, ma era un'altra cosa.

La realtà italiana, nello specifico per quanto mi concerne, piemontese, di quaranta anni fa, per come la ricordo io, era molto più ruspante. C'erano questi nonni o zii, che portavano il gilet marrone o grigio sempre, estate e inverno, sulla camicia con le maniche rimboccate. Se faceva veramente molto caldo, stavano in canottiera, che era di lana, giallognola e infeltrita, con i pantaloni di fustagno, lunghi, sformati e con il cappello in testa di feltro o di paglia. Niente t-shirt e pantaloni corti e ciabatte.

Il vino lo facevano quasi tutti, in campagna. E lo facevano con i piedi, nel senso letterale del termine. Veramente, mi faceva un po' senso quel vino li, considerato il fatto che avevo visto i piedi di mio prozio campagnolo, quello che non parlava in italiano ma solo in dialetto. Di sicuro pestare l'uva era il solo modo di lavarseli che conoscesse.

Oggi pare non sia più cosi. A dar retta alle riviste patinate tanti giovani, in prevalenza maschi ma pure qualche femmina (più orientate verso le alte gradazioni, tipo grappa) molto glamour, dai nomi che sembrano inventati da una scrittrice di romanzi rosa, raccontano di come abbiano rimesso in sesto le vecchie cantine e le vigne obsolete dei nonni o padri, per produrre vini chiccosissimi e fighetti. Finendo per guadagnare un sacco di soldi.

Sembrerebbe tutto molto facile.

Sembrerebbe.

Di sicuro non è così. C'è dietro del duro, sporco lavoro sebbene, per ragioni di marketing per me incomprensibili, tutto deve apparire semplice, patinato e pulito. Nel secondo millennio, la canottiera infeltrita non funziona più. Per schiarirsi meglio le idee sulla vera storia del passaggio dalla produzione famigliare e artigianale, tramandata da secoli, a quella di oggi esce, proprio in questi giorni, il docufilm “Barolo Boys. Storia di una rivoluzione”, produzione indipendente della Stuffilm di Bra (Cuneo) firmata da Paolo Casalis e Tiziano Gaia, regista il primo, già curatore delle guide Slow Food-Gambero Rosso il secondo.

1983, nelle Langhe, appena riconosciute come Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall'Unesco, Elio Altare, Chiara Boschis, Giorgio Rivetti, Roberto Voerzio e Marco de Grazia hanno il coraggio di rompere gli schemi della tradizione vitivinicola dando vita alla rivoluzione del Barolo, che da vino misconosciuto e “da poco” (il Dolcetto era considerato più di qualità) diventa uno dei grandi vini mondiali, a partire dal riconoscimento statunitense. Ed ecco spiegato il passaggio dalle stalle (pardon:cantine) alle stelle, di un prodotto che tutto il mondo ci invidia, pure per i francesi con i loro 'chateau'.

Chapeau !

Monica Bruna

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