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Schegge di Luce | 25 maggio 2025, 06:47

Schegge di luce: pensieri sui Vangeli festivi di Pierluigi Dovis

Commento al Vangelo del 25 maggio 2025, VI Domenica di Pasqua

Schegge di luce: pensieri sui Vangeli festivi di Pierluigi Dovis

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate» (Gv 14,23-29).

Oggi, 25 maggio 2025, la Chiesa giunge alla VI Domenica di Pasqua (Anno C, colore liturgico bianco).

A commentare il Vangelo della Santa Messa è Pierluigi Dovis, referente della Caritas Diocesana di Torino.

Amore, vita, valori, spiritualità sono racchiusi nella sua riflessione per “Schegge di luce, pensieri sui Vangeli festivi”, una rubrica che vuole essere una tenera carezza per tutte le anime in questa valle di esilio. Pensieri e parole per accendere le ragioni della speranza che è in noi.

Eccolo, il commento.

«Vado e tornerò da voi». Mentre i dodici ascoltavano queste parole, nell’intimità della condivisione cœur à cœur della cena pasquale, hanno certo provato sofferenza. Ma quando, a pochi giorni dall’aver ritrovato il Crocifisso creduto perso per sempre nella sepoltura, gli apostoli intravvedono di perderlo di nuovo e definitivamente rischia di subentrare lo smarrimento. Lo possiamo ben capire anche noi se solo ripensiamo alla sensazione attanagliante che abbiamo sperimentato nel momento in cui il coperchio della bara si è chiuso sul volto di una persona a noi molto cara.

Gesù, con le parole che la Chiesa ci ripropone nella sesta domenica del Tempo di Pasqua vicinissima all’Ascensione e alla Pentecoste, ci consegna la chiave per trasformare del tutto e definitivamente la destabilizzazione in fiducia: «Se mi amaste vi rallegrereste che io vada al Padre». Non perché l’amore produca desiderio di allontanamento - che sentimento contraddittorio sarebbe - ma perché l’amore desidera il compimento e la pienezza. Solo se il Figlio torna alla condizione da cui è disceso possiamo avere certezza che il nostro posto, da ora in poi, sarà nel seno del Padre, al tavolo della relazione infinita della Trinità, al posto stesso del Figlio nel quale siamo stati resi figli.

Se nella nostra esperienza di fede si è creato un legame amante con il Signore ciò di cui necessitiamo non è più qualcosa di esteriore, ma una realtà profondamente interiore. Sperimentarlo è un sentire che pacifica, è dono che nulla e nessuno se non Dio stesso può trasmettere: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace». Per assurdo, più Gesù è lontano più il Signore - il mio Signore - è vicino. Un miracolo capace di sostenere per intero la vita. Ma che richiede da parte nostra una attitudine: il ricordo. Terreno dalle sabbie mobili e molto pericoloso, perché è lo stesso abitato dal divisore proveniente dagli inferi che con il ricordare ci porta a rimpiangere le cipolle di Egitto e ci induce ad allontanarci dall’Amato. Se, però, è abitato dallo Spirito diventa il motore che realizza nella nostra vita quotidiana il continuo rapporto tra discepolo e Maestro, tra creatura e suo Signore.

Il Paraclito non è un avatar che supplisce all’assenza del Figlio, non è il contentino come quello contenuto nella fallace promessa di frequenti visite fatta all’anziano al momento del trasferimento in una struttura, non è il mito che cerca di dare una dimensione visibile al soffio invisibile del vento. È ciò che non ci lascia soli, la compagnia espressa con cum solo da cui viene il termine Consolatore, il difensore di una relazione profondissima, ma anche esposta alla fragilità.

In mezzo a tanti stravolgimenti esterni e alle continue ondate di fatica che si abbattono sulle coste della nostra esistenza personale, il Risorto ci consegna lo strumento per non rimanere schiacciati e per non lasciare che a condurre la nave sia la paura. Non è il suo esserci fisico, ma il suo stare in noi mentre il cuore lo accoglie osservando - cioè, conservando e lasciando operare - la sua Parola, l’unica di vita eterna.

silvia gullino

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