Riproponiamo a seguire uno degli articoli tra i più letti della settimana. Questo è stato pubblicato giovedì 12 giugno.
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Silenzio. Qualcosa di già scritto, purtroppo.
Chi scrive di cronaca in questa provincia lo sa che il Monviso non perdona. Soprattutto se si parla di parete nord, la più severa. Come lo sono tutte le pareti nord delle grandi cime.
La nord è la parete che non conosce il sole, dove il ghiaccio non si scioglie mai del tutto, dove il silenzio è più cupo, la sfida più nuda.
Solo gli alpinisti più forti ed esperti la affrontano.
Come Michele e Daniela.
La maggior parte di chi affronta il Monviso sale lungo la via normale del versante sud-est: più frequentata, tecnicamente meno impegnativa.
La nord, invece, è per pochi.
Per cimentarsi con qualunque parete nord occorre aver conquistato decine di cime, avere confidenza con la fatica, gli strapiombi, i canaloni, la nebbia improvvisa, le corde e i ramponi.
È necessario un addestramento che va oltre la tecnica. Salire una parete nord è, innanzitutto, un viaggio interiore.
L’orientamento impedisce l’irraggiamento diretto del sole: le condizioni sono più fredde, instabili, imprevedibili. La roccia può essere ghiacciata anche in piena estate. I bivacchi sono obbligati, l’esposizione psicologica altissima.
Eppure, proprio quell’ombra costante è ciò che affascina.
È lì che nasce la vera sfida: mentale prima ancora che fisica.
È il superamento di un limite personale, in un ambiente inospitale e magnificamente indifferente.
L’ascensione alla parete nord del Monviso è una delle salite più impegnative delle Alpi Cozie.
Una via tecnica, alpinistica, riservata a scalatori esperti. Michele e Daniela lo erano. Chi li conosceva lo sa, e lo mostrano le tante foto che condividevano sui social: vette e neve, corde e creste, luce e silenzi.
Volevano raggiungere la vetta per la normale della parete nord, la via Coolidge: 600 metri di dislivello, difficoltà D+, passaggi in arrampicata fino al IV grado, roccia in parte buona, in parte friabile.
Erano partiti lunedì. Martedì avrebbero tentato la scalata finale fino ai 3.841 metri della cima, dopo una notte al Bivacco Villata (2.650 m).
Quel che è accaduto non lo sapremo mai. È probabile che uno dei due abbia perso la presa su neve o ghiaccio, trascinando anche l’altro in una caduta fatale. Le condizioni meteo erano buone, ma la neve quest’anno, in quota, è ancora molta.
Michele Bruzzone e Daniela Colocci sono gli ultimi nomi di un lungo elenco.
Nel 2023, la stessa sorte toccò a due alpinisti francesi.
Secondo l’Enciclopedia storica del Monviso, dagli anni ’20 a oggi la media dei decessi si aggira tra una e due vittime l’anno.
Un dato rimasto pressoché costante anche in tempi recenti.
Allora, perché salirla?
Perché è un test di alpinismo puro. Per la libertà di sentirsi piccoli di fronte alla montagna.
Per il confronto estremo tra mente, corpo e ambiente. Perché lì, dove l’ombra regna sovrana, si incontra qualcosa di più grande.
Anche a costo di non far ritorno.