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Eventi | 11 febbraio 2024, 12:30

Farinèl / Sarò banale, ma io dico: meno Halloween e più Carnevale

Centinaia di bambini festanti hanno festeggiato, ad Alba, il Carlevé della Famija Albeisa, in attesa del Martedì Grasso che colorerà i paesi di Langhe e Roero. Con gli scritti dell’antropologo maglianese Antonio Adriano andiamo alla riscoperta di una ricorrenza che merita di tornare a essere centrale nel folklore del nostro territorio

Farinèl / Sarò banale, ma io dico: meno Halloween e più Carnevale

Sommerso dai coriandoli e contagiato dall’entusiasmo dei bambini, il sindaco di Alba Carlo Bo ha festeggiato il Carlevé della Famija Albeisa nell’oratorio del Duomo, nel pomeriggio di ieri, sabato 10 febbraio.

Poco dopo è toccato allo sfidante alla sedia più alta di Piazza del Duomo Alberto Gatto, prestarsi al lancio dei coriandoli e a farsi contagiare dalla gioia dei più piccoli. È il Carnevale, la festa che continua, anche se sempre meno, a divertire grandi e piccini nel periodo che precede il Martedì Grasso.

Nella tradizione popolare è il modo per festeggiare nel modo più consono possibile prima del Mercoledì delle Ceneri, giorno di digiuno e astinenza e della Quaresima.

Oggi la sensazione è che gli sforzi di scuole e genitori siano maggiormente rivolti ad Halloween, una ricorrenza che crea tanta economia, ma che ha poche radici nel nostro territorio, a differenza del Carnevale, da sempre crocevia nei festeggiamenti tra Langhe e Roero anche in periodi difficili come quello della Malora e del dopoguerra, dove si scappava dalla terra grama solo nei periodi di festa, da vivere appieno.

Di Carnevale parla molto Beppe Fenoglio, il cantore di Alba e dell’Alta Langa e oggi il Carnevale resiste grazie al grande impegno di volontari come gli appassionati promotori del carnevale Mussottese ad Alba: i ragazzi del circolo Acli della frazione albese che da oltre ottanta anni tengono viva la tradizione o alla Famija Albèisa, con il Carnevale benefico e le maschere la cui storia affonda nei secoli oltre ad alcune Proloco di Langa e Roero. Carnevali tenuti vivi con grande passione che ci fanno capire come questa festa non sia e non debba essere una questione solamente per bambini.

La storia del Carnevale in Langhe e Roero

Come già fatto l’anno scorso, sono andato a spulciare tra gli appunti dell’antropologo maglianese Antonio Adriano per ripercorrere la storia del Carnevale sulle nostre colline, momento in cui la vita contadina si fermava e in cui era possibile dimenticare l’asprezza del lavoro in campagna e divertirsi con gli amici.

Se oggi la tradizione del Carnevale si sta in molti paesi perdendo e, a festeggiare e mascherarsi sono quasi unicamente i bambini, a inizio Novecento e fino agli anni Ottanta del secolo scorso la festività che precedeva la Quaresima era l’occasione per concedersi un momento di svago e spensieratezza, in cui poter evadere in una sorta di fantastico “paese della cuccagna”. Momento di svago e spensieratezza che in molti casi durava anche alcune settimane e che quasi sempre culminava con il falò del “carvé”, in cui veniva dato alle fiamme un “Buraciu” in una allegorica rappresentazione della morte del carnevale.
 
«Nessuno poteva sottrarsi ai festeggiamenti» ricordava Antonio Adriano, maglianese, antropologo che dedicò la propria vita alla riscoperta delle tradizioni arcaiche del Roero e della Langa, in un articolo comparso nel 1979 sulla rivista “Verde”. Per i più ostinati erano previste pene “durissime” si spiega nell’articolo «Se qualcuno veniva rintracciato nei campi il giorno di Carnevale dagli amici, questi legavano il “reo” con della salsiccia, lo caricavano su una “sivera” (portantina per il letame) e lo portavano a forza in piazza tra l’ilarità generale. Il colpevole poi doveva, per espiare le proprie “colpe” aprendo la cantina agli amici che lo avevano “arrestato”».

Se a Magliano per decenni è sopravvissuta la tradizione dell’orso (una persona del paese faceva il bagno nella mostarda e si rotolava nelle piume assumendo le sembianze di un orso, simbolo del pericolo che viene domato dall’uomo, a cui tutti davano la caccia nei giorni del Carnevale), tradizione riportata in auge negli anni Settanta dal “Gruppo spontaneo”, erano presenti altre mascherate carnevalesche, ad alto contenuto simbolico, come il tacchino o la capra.

L’Orso: la mascherata dell’orso è probabilmente la più antica e sicuramente la più diffusa tra le tre proposte, ancor’oggi in voga in molti paesi montani del cuneese come Valdieri, Entracque, Elva o Frassino, sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale e riproposta, grazie al “Gruppo Spontaneo” a Magliano Alfieri, Neive, Cortemilia fino agli anni Novanta. Nell'immaginario popolare il risveglio dell'orso è legato alla comparsa della luna invernale che annuncia il sopraggiungere della Pasqua. Nella pratica carnevalesca l'orso usciva dalla grotta e, in funzione della fase lunare, decideva le sorti della nuova annata agraria. Una persona del paese, scelta non a caso, ma in base a particolari doti di intrattenitore, faceva il bagno nella mostarda e si rotolava nelle piume assumendo le sembianze di un orso, simbolo del pericolo che viene domato dall’uomo, a cui tutti davano la caccia nei giorni del Carnevale. La vestizione avveniva lontano da sguardi indiscreti poiché nessuno doveva conoscere l'identità della persona che indossava il costume rituale. Durante l'interminabile questua per le vie del paese l'orso si agitava e incuteva paura, entrava nelle case e nei negozi, di tanto in tanto tentava la fuga attirando così l'attenzione del domatore e del cacciatore. La famiglia che riceveva la visita dell'orso, per ammansire l'animale, era solita offrire piccoli doni in natura (uova, salame) o, in rari casi, piccole somme di denaro. Dopo che le donne avevano riposto nella cesta l'offerta ricevuta, l'animale carnevalesco si esibiva in un ballo di buon auspicio. Il tutto si concludeva con la cattura della belva e la sua uccisione secondo uno schema di culti arcaici di propiziazione.

La Capra: se l’Orso la faceva da padrone nel Roero, nell’astigiano e nelle vicinanze di Alba, nell’Alta Langa, la mascherata più diffusa era quella della capra. La capra, quasi sempre un giovane del paese, che portava al collo un campanaccio e indossava una testa lignea, provvista di corna, legata ad una lunga corda tenuta dal padrone. Il padrone, dopo aver bussato alla porta della stalla, dichiarava di essere un povero uomo giunto da lontano e chiedeva ospitalità per trascorrere la notte. Il giorno seguente sarebbe ripartito per andar a vendere altrove la capra. La compagnia dei giovani della leva dava inizio ad un'animata e divertente compravendita della capra, ma il prezzo offerto dal negoziante era sempre inadeguato rispetto alle richieste del padrone. Dopo un'estenuante contrattazione il proprietario, piuttosto di svendere l'animale colpiva la capra con una bastonata uccidendola. Un giovane travestito da veterinario, con azioni comiche constatava l'avvenuto decesso. Tra urla e pianti, i coscritti si chiedevano come avrebbero fatto a vivere senza la capra e allora la famiglia ospitante capiva che era arrivato il momento di offrire qualcosa da mangiare e da bere alla compagnia.

Il tacchino (pitu): meno diffusa (in prevalenza nel monregalese e in alcuni paesi del Roero), ma altrettanto interessante era la maschera del tacchino che rappresentava il Carnevale portato solennemente in piazza su un carro adorno di frasche. Alla presenza del pubblico l’animale veniva processato e condannato a morte da giudici con tanto di tuba e occhiali. Si arrivava così al testamento, la parte più interessante della rappresentazione, in cui il pitu (la cui identità doveva rimanere nascosta), spiattellava al pubblico i vizi della comunità e in modo particolare dei potenti della zona in una sorta di rivincita del popolo nei confronti dei ricchi in un contesto allegro e giocoso. Il tacchino veniva poi messo in vendita e ad aggiudicarselo era il vincitore di una spericolata gara di discesa sul ghiaccio a bordo di un rudimentale slittino. La tradizione dei testamenti di animali (non solo il tacchino, ma anche il porcello e l’asino) è antichissima e diffusa in tutta Italia ancor oggi.
Discorso a parte per Priocca dove fino al 1920 si celebrava uno dei carnevali più importanti dell’intero Piemonte che richiamava in piazza migliaia di persone. Fino al 1920 nella piazza del paese roerino è andata in scena una vera e propria commedia che si svolgeva nella piazza della chiesa. Decine di figuranti, altamente selezionati, musicisti e una colonna sonora in piemontese preparata appositamente per l’occasione rendevano il tutto, un appuntamento da non mancare, conosciuto a livello regionale e non solo. Protagonista, e non poteva essere altrimenti, la maschera di “Carnevale” personaggio panciuto e goffo che entrando in scena dava il via alla rappresentazione. Altri personaggi: la Quaresima e Trippone figli di Carnevale. Tra gli antagonisti di Carnevale: il dottor Ricettone, lo speziale Tamarindo, il notaio Scarabocchio. Amici di Carnevale: Salame, Budino, Agnolotto e Fricandò. Tra varie situazioni tragicomiche in grado di scatenare l’ilarità del pubblico e sfamarlo (il dottor Ricettone trovava nel corpo del Carnevale, una grande quantità di agnolotti che venivano offerti a tutti i presenti), si arrivava alla morte del protagonista e alla lettura del testamento. Un testamento, dall’alto valore etico in un contesto giocoso, in cui il Carnevale invitava a non sprecare la vita mangiando, poltrendo o accumulando denaro, suggerendo al pubblico di progredire negli studi e di non dimenticare mai la solidarietà verso il prossimo e la fratellanza con tutti.

Maschere, personaggi, usanze che fanno parte della storia del nostro territorio che meriterebbero di essere riscoperte e riportate in scena in anni in cui si sente sempre più forte il bisogno di sentirsi parte di una comunità, in fondo, come diceva lo scrittore Marcus Garvey: “Un popolo senza la conoscenza della propria storia, origine e cultura, è come un albero senza radici”. Torniamo tutti a festeggiare il Carnevale.

Marcello Pasquero

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