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Attualità | 24 luglio 2013, 11:14

Il discorso di Galimberti a Cuneo: i criteri di una ricostruzione

Intervento del presidente dell’Istituto Storico della Resistenza Livio Berardo

Il discorso di Galimberti a Cuneo: i criteri di una ricostruzione

Il 26 luglio 1943 Cuneo condivide con le mille città italiane le manifestazioni di giubilo per la caduta del fascismo. Conosce anche il fuoco repressivo di un esercito incaricato da Badoglio di mantenere l’ordine pubblico ad ogni costo. Non mancano i morti, anche se non si arriva a carneficine come a Bari o Reggio Emilia. Ciò che rende l’evento eccezionale, un punto di svolta della storia nazionale, è il discorso di Duccio Galimberti o meglio i suoi contenuti (qualche discorso fu tenuto da antifascisti in altre città, lo stesso Galimberti parlò alla folla nel pomeriggio del 26 in piazza Castello a Torino).

Mentre la stragrande maggioranza degli italiani pensa solo all’oggi e si illude che dalla guerra e dalla dittatura si possa uscire in modo indolore, Duccio guarda al futuro e sa che la libertà andrà riconquistata a caro prezzo. Mentre le vecchie classi dirigenti, ben rappresentate a Cuneo dall’ex ministro Marcello Soleri (a cui il 28 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III aveva rifiutato la firma sul decreto di stato di assedio che avrebbe fermato la marcia su Roma delle camicie nere), si affidano al re e a Badoglio, raccomandando ordine e calma, Galimberti sa che il fascismo non può essere superato da chi ne ha favorito l’avvento al potere e condiviso per vent’anni le responsabilità.

Solo il popolo italiano nella sua accezione più ampia potrà cambiare le cose. A guidare il popolo dovrà essere una nuova classe dirigente, mai compromessa con il regime, di specchiata moralità. Duccio, ancor prima dell’8 settembre, è contro ogni attendismo, così come lo sono il partito di cui sta per diventare uno dei leader, il Partito d’azione, e il PCI, che per vent’anni non ha mai desistito dalla lotta clandestina. Ma Duccio sa anche mediare con liberali e cattolici, più prudenti e restii a passi audaci, e sa anche aiutare il PSI a ritrovare dopo anni di inerzia il ruolo che gli compete. Quei giorni di fine luglio lo studio di Galimberti è il crocevia organizzativo dell’antifascismo provinciale e, per ciò che riguarda il PdA, uno dei capisaldi nazionali.

Fra le molte lettere scambiate con compagni di partito, con leader antifascisti di varie città della provincia, con le autorità militari alle quali chiede con fermezza misura e buon senso nell’applicazione dello stato di assedio mancano appunti relativi al discorso del 26 luglio. A quanto risulta, l’intervento dal balcone dello studio fu improvvisato: Così pure il comizio pomeridiano di Torino. Come ricostruire allora un testo quanto meno verosimile?

Ci è sembrata illuminante la lezione di Tucidide, intenzionato a scrivere un’opera duratura “per sempre” in un’epoca di prevalente comunicazione orale: vista l’impossibilità di ricordare puntualmente i discorsi ascoltati di persona (gran parte di quelli tenuti ad Atene fra il 431 e il 424 a. C.) o di verificare quelli riferiti da altri, perché tenuti ad Atene durante l’esilio dello storico oppure pronunciati in altre città, non gli rimase che adottare il criterio di argomentare ciò che era logico che il personaggio di volta in volta dicesse in quelle date circostanze. Fortunatamente per Galimberti abbiamo qualche traccia in più: i ricordi scritti di Ettore Rosa (e Antonino Repaci), di Adolfo Ruata e Nuto Revelli, quelli di testimoni come Nello Streri, concordi nel focalizzare il nocciolo essenziale dell’allocuzione.

Un documento autografo di sei foglietti, scritto a matita e nervosamente corretto e ricorretto, posteriore di una giornata, forse anche di meno, come si può dedurre dai riferimenti interni, fa un bilancio delle manifestazioni popolari del 26 luglio e indica al PdA i nuovi obiettivi politici. Dunque sul contenuto generale del discorso di Duccio non esistono molti dubbi. Problemi e perplessità riguardavano semmai la chiave stilistica da adottare. Duccio scriveva ancora “cogli” e “pel” anziché “con gli” e “per il”. Dubito che facesse altrettanto in un discorso pronunciato a braccio.

L’ultimo discorso di Galimberti anteriore al 26 luglio di cui si possieda la trascrizione è quello tenuto per gli 85 anni della Società operaia il 6 settembre 1936. Separa i due eventi un intervallo di quasi 7 anni, in cui tutto è cambiato: dal quadro politico alla condizione familiare ed esistenziale di Duccio. Anche l’eloquenza convenzionale e fredda del discorso di rappresentanza, fatta di periodi lunghi e lessico aulico, deve aver ceduto il posto a una comunicazione più concitata e “moderna”. Fra gli appunti autografi del 26-27 luglio 1943 e il discorso alato (e elogiativo del corporativismo) del 1936 abbiamo scelto una cifra stilistica che privilegia decisamente i primi. E non solo per una stretta contiguità cronologica.

Riproponiamo qui di seguito il celebre discorso di Duccio Galimberti, pronunciato a Cuneo, in piazza Vittorio Emanuele II, il mattino del 26 luglio 1943

Cittadini di Cuneo, Italiani,

la notizia che da tanto tempo attendevamo è giunta. Mussolini è stato deposto o, come dice l’eufemistico comunicato di Sua Maestà il Re, ha rassegnato le dimissioni. Da giorni aspettavamo qualcosa del genere. La situazione militare e sociale dell’Italia si era fatta insostenibile. Ogni giorno nuove sconfitte si aggiungevano a quelle patite sul fronte africano e su quello russo. Metà della Sicilia è stata occupata dagli Angloamericani. Ogni giorno centinaia di soldati italiani cadono in combattimento e tanti civili muoiono sotto i bombardamenti. Molte città sono colme di macerie. Dove non si muore per armi, si rischia di morire di fame. Manca il pane, manca l’indispensabile per vivere. Siamo arrivati a questo punto per una guerra assurda imposta al paese da una dittatura che ha distrutto non solo la vita pubblica della nostra patria, ma anche la sua dignità e il suo onore.

L’iniziativa del Re è stata accolta con tripudio dal popolo italiano. Ovunque la folla festante invade le piazze, abbatte i simboli del regime, riscopre la gioia del parlare di politica, di lanciare slogan senza il terrore della denuncia e dell’arresto. Tutti noi partecipiamo a questo sentimento. Tutti noi viviamo il senso di liberazione che la caduta della dittatura suscita.

Ma non lasciamoci prendere dall’entusiasmo ingenuo. La deposizione di Mussolini non riporta indietro le lancette della storia, come se vent’anni di regime non fossero mai esistiti e l’Italia potesse riavere di colpo libertà, pace e benessere.

Il Duce non è stato travolto da una rivoluzione popolare, ma da una manovra di palazzo.

Anche noi sentiamo gridare “Viva il Re”, “Viva Badoglio”, sappiamo però che la rottura fra il Re e Mussolini è giunta molto tardi, dopoché tanto sangue italiano è stato vanamente versato per soddisfare le ambizioni sfrenate di un dittatore. Ancor più siamo preoccupati per gli obiettivi che intende perseguire il nuovo Governo e per i metodi con cui vuole agire. Il maresciallo Badoglio, ora primo ministro, nel suo messaggio alla nazione ha dichiarato: “La guerra continua a fianco dell'alleato germanico. L'Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni” e ha aggiunto “chiunque turbi l’ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito”.

Ora io mi chiedo: come può continuare la guerra a fianco dei tedeschi e come possono al contempo le millenarie, o anche solo secolari, tradizioni nazionali essere rispettate? Il balcone da cui vi parlo, affiancato da tanti amici, sinceri patrioti, di diverso orientamento politico, è quello stesso dal quale nel novembre 1918 mio padre assieme con voi cuneesi salutò la battaglia di Vittorio Veneto, la sconfitta degli Imperi centrali e, con la liberazione di Trento e Trieste, il compimento del Risorgimento. E’ contro il dominio austrogermanico che il popolo italiano ha dovuto combattere per conquistare la sua indipendenza. E allora, se crediamo nel destino e nel senso della storia dell’Italia, noi ribattiamo che, sì, la guerra continua, ma fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana.

Ma forse, potrebbe obiettare qualcuno, il Re e Badoglio agiscono in modo contraddittorio e occulto perché pensano di poter gradualmente uscire dal conflitto senza che l’Italia debba patire danni ulteriori.

Come pensano di poter ingannare i tedeschi? Da quando gli Angloamericani sono sbarcati in Sicilia, molte Divisioni tedesche hanno attraversato le Alpi e non tutte si sono dirette in Sicilia a combattere, ma hanno preso posizione in altri punti strategici della penisola. L’invasione dell’Italia da parte germanica è già cominciata. Per questo non possiamo accodarci ad una oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare se stessa a spese degli italiani. Il Re e Badoglio con le loro mosse miopi e grette rischiano di consegnarci indifesi e impreparati nelle mani di un feroce occupante. Rischiano anche di far risorgere o lasciar vivere più rigoglioso di prima il fascismo, anche se orfano del Duce. La Milizia è stata messa al sicuro, inserendola nell’Esercito: un riconoscimento mai ottenuto neppure negli anni di maggior forza del regime. I fascisti possono continuare a camminare impettiti per le strade e esibire il loro potere. Gli antifascisti che in questi anni hanno osato sfidare il carcere o il confino, restano in prigione, e molti altri sono destinati a raggiungerli in quei luoghi di sofferenza.

Mentre io parlo, le autorità militari stanno traducendo in bandi le direttive di Badoglio e del generale Roatta, che impongono il coprifuoco, proibiscono ogni manifestazione e minacciano il ricorso alle armi contro i civili.

Sono ordini spietati che vengono motivati con le esigenze di guerra.

Ma la loro guerra è incompatibile con la volontà di liberazione e di rinnovamento del paese. L’Italia vuole liberarsi dal giogo della dittatura e vuole anche farla finita con la barbarie nazista che tante rovine ha portato all’Europa. La guerra continuerà, perché i tedeschi e i loro complici fascisti non rinunceranno a perdere le posizioni di forza possedute in Italia. La guerra dovrà quindi continuare, ma non sarà quella di cui parla il maresciallo Badoglio: sarà guerra di Liberazione contro i tedeschi e i fascisti.

Il prezzo da pagare sarà alto e andrà ad aggiungersi a quelli già pagati dall’inizio della guerra, anzi i patrioti saranno costretti a prendere le armi non solo contro i tedeschi, ma anche contro i fascisti. Sarà una pena atroce, combattere contro degli italiani, ma inevitabile. Pensate: come è possibile che una nazione la quale per vent’anni ha sopportato le continue violazioni dei diritti e della dignità umana da parte di una dittatura, fino alla proclamazione delle guerre di aggressione, in poche ore ne venga liberata dall’alto da chi fino a ieri spartiva il potere con Mussolini oppure da un esercito straniero, sia pure inviato da paesi democratici?

No, il Risorgimento non sarebbe stato possibile senza il sangue versato dai cospiratori di Mazzini, senza l’eroismo e l’audacia di Garibaldi. Solo una libera scelta, compiuta dal basso, di massa, può riscattare gli Italiani dalla vergogna di vent’anni di fascismo.

Sarà una guerra popolare e nazionale; dunque, combattuta volontariamente dal popolo preparato e guidato da chi è consapevole della gravità del momento storico. Una guerra che esige, accetta ed anzi cerca, il sacrificio non mai è sterile, mai. Soltanto essa, tramontate le menzogne e le illusioni del regime, può creare i nuovi valori morali di cui l’Italia ha bisogno. Soltanto essa può garantire all’Italia quella vera pace a cui aneliamo, contribuendo alla costruzione di un nuovo ordine europeo democratico e confederale.

Non potrà essere una parte politica sola a costruire o ricostruire quei valori. Proprio qui nel mio studio, si sono or ora incontrati esponenti dei Partiti liberale, socialista e comunista, della Democrazia Cristiana e del Partito d’Azione. Assieme abbiamo costituito un Comitato provinciale provvisorio che lancerà un appello alla popolazione. Chiediamo giustizia, non vendetta. Vogliamo che le insegne fasciste siano rimosse anche dai luoghi presidiati dalle forze militari, al gen. Vasarri comandante di zona avanzeremo questa richiesta e inoltre chiederemo che le direttive sull’ordine pubblico siano applicate con prudenza e buon senso.

Dodici ore fa, dopo vent’anni di oppressione, abbiamo riconquistato la libertà. Non vogliamo separarcene mai più.

W l’Italia, W la libertà

Livio Berardo

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