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| 07 novembre 2013, 12:00

Osservate più spesso le stelle

E’ l’invito che Florenskij, filosofo e matematico russo, rivolgeva alla famiglia nelle sue lettere dal gulag

Osservate più spesso le stelle

“Niente al mondo si perde, e il lavoro porta sempre il suo frutto, anche se spesso è assai diverso da quello che speravi di conseguire”. 

Questa è una frase straordinaria: la scriveva Pavel Florenskij una notte dell’8 aprile 1934, da Skovorodino, tappa intermedia della sua tradotta verso i famigerati gulag delle Isole Solovki. Florenskij era un filosofo, un matematico e un sacerdote russo, vittima del totalitarismo sovietico: dopo anni di prigionia per crimini mai commessi, Pavel viene fucilato nella notte dell’8 dicembre 1937, insieme ad altri cinquecento detenuti. Unici testimoni – oltre agli aguzzini – sono le alghe e i bassi arbusti, studiati con passione e costanza da Florenskij negli anni di prigionia: egli lavora incessantemente per resistere.

E scrive: perché Florenskij, prima di essere uno studioso, è un uomo: un padre, un marito, un figlio. A casa ha lasciato la moglie Annulja e i loro cinque figli: Vasilij, Kirill, Olga, Michiail, Marja. I loro nomi sono gli unici punti di riferimento nella geografia desolata dove Florenskij è mandato a morire: sono loro la linea dell’orizzonte che separa i ghiacci dal cielo, la notte dal giorno, la follia dalla speranza. Perché prima ancora delle privazioni e delle sofferenze fisiche, è l’esilio senza possibilità di ritorno che distrugge l’animo del detenuto Florenskij: e tuttavia nelle lettere che scrive non è mai la disperazione ad avere l’ultima parola.

È questa la forza che traspare dal suo epistolario, divenuto opera letteraria suo malgrado: le lettere diventano icona dell’assenza, delle nostalgie destinate a restare tali. Florenskji sa che i suoi cari soffrono con lui e per lui: anche a loro non fu concessa tregua dal regime, e la miseria li assediava da vicino. Allora Florenskji padre marito figlio non abdica dal suo ruolo: e lo svolge tramite l’unico mezzo a sua disposizione, che è la parola.

La parola che egli scrive, a quaranta gradi sotto zero, con mozziconi di matita e su carta di fortuna: la parola che deve sfuggire alle maglie della censura, la parola che deve affrontare migliaia di chilometri per raggiungere i suoi destinatari. E la parola infine arriva, ed è balsamo per la sua famiglia: le lettere sono sì icona dell’assenza, ma anche e soprattutto paradigma di una presenza che oltrepassa i limiti spaziali.

Florenskij sino all’ultima lettera non lamenta la sua situazione: quanto più pressante lo cinge la stretta della morte, tanto più l’autore parla in modo limpido e sereno; fino all’ultimo non si arrende all’odio ma colma “ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più come tale”.

Florenskij è il maestro di tutti i cercatori di bellezza, perché la trova anche e soprattutto nel fango: in fondo, come scrive in una delle sue ultime lettere, a volte basta guardare le stelle per ritrovare se stessi e la speranza. 

“Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all’aria aperta e intrattenetevi da soli con il cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete”.

Marta Gas

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