Questa settimana la provincia “Granda” ha pianto la morte di Gian Paolo Giacobbe, Marco Inaudi, Antonio Levrone e Paolo Papini: i quattro musicisti cuneesi deceduti nel terribile incidente stradale sull’autostrada A21 vicino a Brescia. Travolti da un tir, mentre tornavano a casa con il loro furgone dopo alcuni concerti in Trentino. L’Italia è inorridita per la tragica uccisione in Libia dei due tecnici, Salvatore Failla e Fausto Piano, e la terribile fine del ricercatore Giulio Regeni, barbaramente massacrato in Egitto. E quanti sono nel mondo, ogni giorno, le bambine, i bambini, i giovani, le donne, gli uomini che se vanno perché colpiti dalle pallottole della guerra o del terrorismo?
Casi diversi, ma le morti improvvise e quelle violente colpiscono sempre per la loro brutalità e l’immediato dolore lancinante che lasciano nel cuore di chi resta. Anche se le agonie lente dovute a una malattia sono ugualmente crudeli, per l’impotenza di quanti stanno vicino a chi soffre di poterlo aiutare ad uscire dal tunnel del viaggio “finale”. Tutte le morti generano comunque ferite profonde. Impietose. Se la vita è un gesto d’amore e una scelta fortemente voluta da chi la concepisce, salvo, anche in questo caso, le azioni violente come gli stupri, la morte non ha una spiegazione: rimane un mistero perché arriva sempre quando meno te lo aspetti, quando avresti ancora tante cose da dire e da fare.
Per chi crede in Dio, o comunque in un’illuminazione superiore, rimane la misericordia divina predicata da Papa Francesco e la speranza di avere un raggio di luce al di là dell’umano capace di accogliere chi se ne va. Spesso, infatti, diventa impossibile spiegare come si possano chiudere gli occhi per l’ultima volta quando sei un bambino di pochi mesi o hai nello spirito e nel fisico la gioia contagiosa di vivere come i quattro musicisti cuneesi.
Per chi non crede in Dio vale forse quanto ha scritto Italo Calvino nel libro “Le Città invisibili”: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
In quanti hanno amato le persone che se ne sono andate rimangono, comunque e sempre, un grande senso di vuoto e la disperazione inconsolabile. Perché ogni dolore è di chi se lo porta sulle proprie spalle.









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