“Forse non sa volare con ali d’uccello, ma ad ascoltarlo ho sempre pensato che voli con le parole”. A scrivere così è Luis Sepulveda, a crederlo sono io ogni volta che leggo uno dei suoi libri. Lo scrittore cileno si è spento oggi (giovedì 16 aprile) nella città di Oviedo dove stava combattendo contro il Coronavirus. Al Caffè Letterario di Bra lascia un’eredità che sta tutta dentro alle sue letture di educazione di massa, proprie di un combattente di penna.
Ci sono in lui la favola e la lotta di un mondo intero: non solo quelle del suo Paese che gli tolse la cittadinanza durante la dittatura di Pinochet, ma di quell’universo che si ribella alla sopraffazione e che si trova ovunque, sotto l’epidermide della realtà scritta con le regole dei più forti. I primi passi da scrittore li ha mossi al liceo di Santiago, dove pubblicò qualche poesia sul giornalino dell'Istituto. Ma decise subito di mettersi in proprio, scrivendo e ciclostilando racconti pornografici che poi vendeva ai compagni di scuola. Di lì a poco, si sarebbe dedicato a ben altro genere di narrativa.
Cileno errante, scrittore tradotto in almeno una quindicina di paesi, Sepulveda si è lasciato attraversare dall’ispirazione ad un ideale di letteratura intesa come missione in difesa dei deboli, dei dimenticati, della terra ferita. Come giornalista ha viaggiato a lungo in America Latina e poi nel resto del mondo, anche al seguito degli equipaggi di Greenpeace. Dopo aver risieduto ad Amburgo ed a Parigi, viveva in Spagna, nelle Asturie, ma la sua narrativa continuava a parlare dell’identità sudamericana, delle contraddizioni portate dalla colonizzazione anche in chiave postmoderna e dell’importanza di ritornare alle origini.
Nel curriculum lo troviamo anche sceneggiatore e regista, ma è diventato famoso in tutto il mondo grazie ai suoi racconti, frutto di esperienze personali poi tramutate in parole scritte ed illustrazioni capaci di conquistare grandi e piccini. Ha raggiunto le vette della letteratura fin dal primo romanzo, ‘Il vecchio che leggeva romanzi d’amore’, apparso per la prima volta in Spagna nel 1989 e con ‘Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare’ ha firmato, nel 1996, uno dei libri più letti di sempre.
Ho incontrato Luis Sepulveda all’Università del Gusto di Pollenzo: era un incantatore anche quando mi parlava. Ha detto che nei libri bisogna mettere un po’ di commozione e un po’ di risate. Ed è esattamente quello che ha fatto lui mentre raccontava aneddoti di vita. Nei suoi romanzi ha spiegato di aver volutamente inserito personaggi visibili ed invisibili: quelli visibili sono i personaggi che agiscono, mentre quelli invisibili sono i valori da tramettere ai più piccoli. “ Scrivere per i bambini è una grossa responsabilità, perché sono persone piccole, con poca esperienza e verso di loro ci vuole molto rispetto”.
L’autore ha spiegato come nascono i suoi lavori: “Una volta ho pensato che, per parlare di amicizia, bastavano due personaggi, un gatto ed un topo, così diversi tra loro e dunque perfetti. Come sempre, andando avanti nella storia, arriva un momento in cui i personaggi hanno una vita propria e lo scrittore diventa un cronista che la scrive e non dipende più dalla sua volontà”. Quindi, ha sottolineato l’importanza dell’oralità per la stesura dei suoi romanzi: le sue storie sono prima di tutto narrate ad alta voce, di fronte ai suoi figli o ad amici, in modo da poter essere giudicate e condivise.
La stesura vera e propria arriva soltanto dopo la conversazione, non viceversa, meglio se fatta in un contesto intimo e famigliare, vero cardine di tutto. “ Il momento più importante per l’umanità è quando la famiglia si raccoglie a tavola la sera per condividere, per mangiare qualcosa di semplice che ha una storia. È il meraviglioso racconto della giornata. I genitori raccontano, i figli raccontano, si fanno piani per il futuro… è bellissimo raccontarsi il giorno”.
Come è bellissimo parlare di amicizia: “ Bisogna avere amici. L’amicizia ti fa pensare in prima persona plurale e quel ‘noi’ ti rende più forte. Io ho un amico da tantissimi anni, un vecchio pescatore che è una persona speciale, di pochissime parole: ogni volta che andavo a trovarlo nella sua umile casa mi chiedeva: ‘che cosa vuoi mangiare?’ e io gli rispondevo: ‘tu lo sai’. Così andava al mare e dopo un po’ tornava con un pesce enorme che mangiavamo insieme. Poi in Cile è arrivato il golpe, mi hanno mandato in prigione e poi in esilio… sono tornato a trovarlo dopo sedici anni, ci siamo abbracciati e lui mi ha chiesto: ‘che cosa vuoi mangiare?’ ed io gli ho risposto: ‘tu lo sai’. Così è andato al mare ed è tornare con un grosso pesce… gli ho raccontato come era stata la mia vita in tutto quel tempo e lui mi ascoltava attento, in silenzio. Quando gli ho chiesto di raccontarmi che cosa aveva fatto lui, mi ha risposto: ‘niente di importante. Ho vissuto. E siccome tu sai capire, mi sembra che ho detto tutto’. Ecco, con un amico puoi anche stare senza parlare, ti basta sentire che l’altro è insieme a te”.
Nondimeno sono importanti gli animali: “ Sono cresciuto fra cani, gatti, galline… la loro presenza è una parte di tutto il mondo naturale che ci circonda e ti fanno capire come funziona la natura. C’era la gallina Dorotea che giocava a calcio con noi ragazzini e quando un giorno non l’ho vista più e mi hanno detto che era sulla tavola, pronta per essere mangiata, sono stato molto triste”. Felicità, è un altro tema su cui si è espresso. “La felicità è un diritto umano. Allo stesso modo in cui ho combattuto per non dimenticare che sono un uomo libero, quando difendo il diritto alla felicità, lo faccio per non dimenticare che io sono stato e sono immensamente felice”.
Nei suoi libri, ha tracciato ponti continui tra favola e impegno: “ Credo nel potere della parola e più bella è la scrittura, più forza porta il suo messaggio”. Proprio in ogni sua parola si muove un carico di emozioni che è la memoria stessa e solo quella, a consegnargli: “ La memoria è la pietra angolare che sostiene tutta la mia architettura di uomo e scrittore. La nostalgia non so che cosa sia, però a volte la sento e mi piace provarla”.
Ma che cos’era allora la letteratura per un combattente di penna, come lui? “ Una domanda difficile. La letteratura è un modo per raccontare una storia, di trasmetterla agli altri. Essa ci permette di affrontare la parte oscura, le ombre, il lato segreto di ciò che a volte viene celato, nascosto per pudore, cancellato dalla storia ufficiale. Ma dobbiamo avere il coraggio di affrontare le nostre ombre”. Una responsabilità in più per chi è immerso in questo panorama: “ Leggere rende persone migliori, perché, a sua volta, permette di intendere la complessità delle cose, se lo scrittore è stato responsabilmente all’altezza”.
Quindi, ha confessato alcuni eventi molto singolari della sua vita: le sue avventure tra le balene e la sua voglia di salvare il mondo animale, lo stretto legame con i suoi figli e nipoti, severi critici e lettori, ma soprattutto come si è procurato il grosso tavolo su cui scriveva le sue storie: “ Il vecchio panettiere di Amburgo, tutto amore e cuore, decise di chiudere bottega dopo cinquant’anni di forno con un simposio con gli amici ed alla fine decise di regalare a ciascuno un ricordo del suo lavoro. Quando è toccato a me, ho scelto la vecchia tavola su cui aveva fatto pane da una vita e l’ho voluta sporca, con quell’odore di farina impastata… e oggi la utilizzo così… è bellissimo scrivere su quella tavola piena di profumo di pane”.
Lo stesso che respirava quand’era ragazzo nel ristorante del nonno in Cile: “ Quando arrivava il pane, si sentiva un profumo più forte e più bello di quello di un fiore”. Poi è tornato a raccontare una storia di animali, parafrasando le suggestioni della lentezza del vivere, del rispetto della natura, della poesia della vita, promuovendo il tema del recupero dei ritmi personali dell’umanità e del movimento. “ Non solo per gli animali, ma per tutta la società! Io ho sei figli e partecipo al diritto per la lentezza decidendo la direzione in cui muovermi ed il ritmo con cui devo arrivare”.
Alla fine gli ho stretto la mano sussurrandogli il mio personale ringraziamento per le sue parole, lui se l’è poggiata sul cuore e mi ha ringraziato a sua volta, firmando la copia del libro ‘Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza’ del quale mi illustrò la genesi: “Il libro è nato quando uno dei miei nipotini, Daniel, si presentò dinanzi a me con una lumaca in mano, in silenzio. Attesi con dolce paura la domanda: ‘nonno perché la lumaca è così lenta?’. Non potendo partire da un discorso scientifico, presi tempo. ‘Dopo te lo racconto’, risposi. E così cominciai a pensare a questa lentezza, alla presenza della lumaca nelle diverse culture del mondo, la cominciai a simboleggiare e dare quindi la risposta a Daniel”.
Fresca di spiegazione, come faccio sempre, apro una pagina a caso ed inizio a leggere qualche riga, mentre scintille d’ispirazione mi balenano dentro come quando si accende un timido fuoco per un falò in riva al mare ed i primi strepitii delle fiamme ti fanno sentire a casa, al sicuro, al caldo. Come una lumaca nel proprio guscio. Già, come una lumaca … “ Facendo ricerche sul tema – scrive Sepúlveda – ho scoperto che in tanti diversi contesti etnici la lumaca è simbolo di equilibrio. Perché essa possiede il giusto, solamente il giusto. Ha lo spazio esatto in cui abitare, il suo esoscheletro: se deve crescere di due millimetri il suo esoscheletro cresce di due millimetri, non di più”.
La lumaca come un grande maestro zen. La sua lentezza è saggezza, presenza, umiltà. Non ha mai fretta, gode di quello che ha, molto semplicemente. Comprende in sé il giusto senso della misura e del limite, perché la sua casa se la porta sempre appresso, quindi non ha alcun interesse ad accumulare, vive del necessario, il superfluo potrebbe esserle fatale.
Subito intuisco la grandezza dell’insegnamento di questa creatura e della sua proverbiale lentezza. Mai come in questi tempi di lockdown l’insegnamento della lumaca andrebbe interiorizzato e praticato. Mangiare lentamente, respirare lentamente, parlare lentamente… non c’è mamma che, rivolgendosi al proprio figlio, in qualche occasione della giornata non tiri fuori l’aggettivo ‘lentamente’.
Ed ecco, di nuovo, le parole di Sepulveda a farmi da eco: “La vita è breve, buona e c’è un diritto fondamentale: il diritto alla felicità. Che non si manifesta e non si deve confondere con una sorta di diritto naturale a diventare ricco o a soverchiare gli altri. Parliamo di un’altra felicità. Delle soddisfazioni piccole, che però valgono molto”. Nella lentezza c’è il gusto di assaporare la vita, di accorgersi dei dettagli, di vivere nel presente passo dopo passo.
Nella lentezza non c’è paura, c’è fiducia e coscienza, c’è attenzione e riflessione. La sua casa, il suo rifugio è letteralmente in lei e sempre con lei. Un altro insegnamento meraviglioso: imparare a prendere dimora in noi stessi, fare del nostro ‘sé’ il nostro unico rifugio, l’alfa e l’omega di ogni spostamento e tenerlo libero il più possibile da cose inutili, sia in termini ‘immateriali’, come possono essere pensieri ridondanti, preoccupazioni o emotività smisurata, sia nel senso più concreto di possesso, accumulazione, consumismo. Rimaniamo leggeri, non appesantiamo la nostra casa, il nostro ‘sé’, di futilità, proviamo a fare questo esercizio di smaltimento, anche solo mentalmente, per qualche giorno.
Facciamo finta di essere lumache che si portano dietro la propria casa ogni minuto e chiediamoci, con sincerità: che cosa è davvero necessario per me? E poi, di tutto il resto, facciamo pulizia. Con gioia, senza ripensamenti. Il ritmo (e la qualità) della nostra vita cambierà radicalmente.
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venerdì 19 dicembre
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