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Che tempo fa

| 01 luglio 2018, 10:03

La leggenda del pomo d’oro

“(A parte) È una specie di tic. Non farci caso. Credo sia di origini nobili quindi parla un po’ blasè.”

La leggenda del pomo d’oro

“Non ho mai detto di odiare il pomodoro. É  solo che…”

“È solo che ti rifiuti di mangiarlo. Primi piatti in bianco, pizze in bianco…”

“Si ma adoro la caprese.”

“Non conta. La fai coi pachino e l’ottanta per cento del piatto è mozzarella.”

Entrare al “Passato di pomodoro” con l’insegna dadaista “ceci n’est pas une tomate” che raffigura un cuore di bue costoluto alla maniera di Guttuso quindi prendere posto al tavolo riservato, sotto quadri e stampe dell’iconico ortaggio, mentre il nostro amico saluta lo chef che sembra un incrocio fra Cannavacciuolo e un tenore italo-americano.

“Buongiorno, nevvero.” Lo chef.

“Buongiorno”.

“Mi è stato detto del suo “problema” col pomodoro. Spero di riuscire, io e il mio staff, a farle cambiare idea, nevvero.”

“Io non ho nessun problema col pomodoro. (A parte) Perché dice “nevvero”?

“(A parte) È una specie di tic. Non farci caso. Credo sia di origini nobili quindi parla un po’ blasè.”

“Quando anni fa ho aperto questo ristoro per cultori del Paradice appfel o “mela del Paradiso”, come lo chiamavano inizialmente gli ungheresi, non mi sono limitato a sperimentare nuovi piatti o a fare ricerche sul territorio ma ho sentito l’esigenza di studiare la storia del pomodoro. Volevo  che chiunque desinasse al “Passato di Pomodoro” vivesse un’esperienza unica che gli permettesse d’indagare le radici di odori e sapori senza perdere l’immediatezza del gusto. Nevvero.”

Osservare una cameriera di chiare origini sudamericane guadagnare il tavolo intimidita dalle aristocratiche trippe dello chef, per l’occasione compresse in una divisa bianca dalle dimensioni, più o meno, della Groenlandia.

“Ecco une entréè di gamberi al lime con pomodori ramati verdi e gialli cui sono stati tolti tutti i semi che nuotano su una base d’acqua al pomodoro. Lattuga e radicchio areolano il piatto che ho chiamato “insalata da amare”. Nevvero”.

Piluccare i gamberetti ignorando i pomodori e bevendo un vino bianco la cui etichetta pergamenata e l’aureo colore ci provocano ondate di sudore freddo alla schiena che solo la certificata ricchezza del nostro amico (di cui siamo ospiti) può sedare.

“Ci risiamo”.

“Cosa?”

“Hai lasciato i pomodori. Mi dici che problema hai? Perché non ti piacciono? Sono buonissimi.”

“Tutto ok? Vedo che avete mangiato tutto. Quasi tutto. Nevvero.”

Fissato in cagnesco da entrambi, sentirsi in colpa come un quattordicenne beccato dai genitori a sbirciare un libro di matematica corretto alla pornografia. Ad una sola mano.

“Il pomodoro è l’alimento nazional-popolare per definizione. È italiano come il mandolino o una gondola-ricordo di Venezia. Da ragazzino il suo odore mi ha molestato per anni. Come le bionde trecce o il ballo della scopa. Ne ho pieni i coglioni di pizza napoletana e pasta co a pummarola ncoppa, di vecchie che imbarattolano conserva in cantina e poi c’è tutto questo rosso proletario da Festa de l’Unità.”

“Scusa ma tu non eri di sinistra?”

“Si ma ne ho fatto indigestione. Come con i pomodori.”

“Credo si stia facendo un po’ di confusione, nevvero.” Fissare la mole dello chef atterrare su una sedia cigolante mentre altri due piatti sostituiscono l’entrée.

“Sembra pasta in bianco.”

“Si chiama “pomodoro a scomparsa” ed è una mia invenzione: si tratta di linguine all’acqua di pomodoro in cui di tale ortaggio si conserva il sapore ma non il colore. Ho pensato che il razzismo del mio gradito ospite potesse essere di natura semplicemente cromatica così ho eliminato il rosso dalla portata.”

“Geniale.”

“Praticamente “linguine allo spoglio”.”

“Al mondo ci sono circa 25000 varietà di pomodoro anche se quelle più comunemente coltivate sono poche centinaia. Non è un errore considerare l’Italia il paese del pomodoro o uno dei suoi maggiori produttori visto che ha due DOP (pomodoro del Piennolo del Vesuvio e San Marzano dell’agro sarnese) senza dimenticare il pomodoro di Pachino IGP e i cinque presidi slow food anche se in termini quantitativi Cina India e Stati Uniti la fanno da padrone. Il punto è: “ In Italia il pomodoro c’è sempre stato?” Nevvero.”

Tacere ruminando le linguine come un criceto.

“Nooo?!” sentir miagolare il nostro amico, deciso come la coscienza politica di Scillipoti.

“Chiedetelo a Maia, la mia maître de salle, nevvero.”

“L’origine storica del pomodoro è situata fra il Perù e il Messico, il paese di cui sono originaria.”

“Nomen omen.”

“Pensa se si chiamava Inca”.

“Gli Aztechi lo chiamavano “xitomatl” che significava: “pianta con frutto globoso, polpa succosa e numerosi semi.” A portarlo in Europa fu l’esploratore Cortés intorno alla metà del XVI secolo e il famoso botanico Mattioli lo ribattezzò “mala aurea” (pomo d’oro). Nel Seicento e Settecento iniziò a diffondersi per tutto il Vecchio Mondo, complici le carestie e la penuria di grano, e nonostante il suo immediato successo in Spagna e nel Sud dell’Italia il Nord Italia cominciò a vederlo sulle proprie tavole solo dopo la spedizione dei mille di Garibaldi. Una cosa è certa, i pomodori importati dalle Americhe non avevano niente a che vedere con quelli cui siamo abituati noi. Nevvero.”

“Questa pasta è buonissima chef. Con l’artificio dell’acqua di pomodoro lei ha fatto come quelle mamme che nascondono la verdura nei piatti preferiti dei figli per fargliela mangiare. Inizio a pensare anch’io di avere qualcosa di pregiudizievole nei confronti dello xito…coso.”

“Xitomatl. Ora vi chiederò una cosa infantile ma vi prego di fidarvi. Chiudete gli occhi e ascoltatemi bene. Nevvero”

“Io mi fido solo del muro alle mie spalle. E dell’illibata fermezza della sedia.”

“Maleducato”.

“Frate Bernardino di Sahagùn giunge nel 1529 in Messico, nella capitale dell’impero azteco distrutta proprio dagli spagnoli otto anni prima, ed anche se non c’è più traccia dei fasti imperiali e dei templi splendidamente ornati c’è ancora il grande mercato di Tlatelolco di cui egli ci parla nel “Codex Florentino”, inizialmente scritto nella lingua nahuatl e poi tradotto in spagnolo secoli dopo. Ora cercate di immaginare il magma brulicante odori e sapori di questa civiltà in piena decadenza e proprio perché occidua ancor più dedita al piacere del cibo, camminate sulle passerelle perpendicolari della laguna, fra le rovine dei templi e gli artigiani che lavorano rame e oro, senza animali da traino né carri (non era ancora stata inventata la ruota), fermatevi ad osservare i grandi vasi di terracotta interrati e usati come forni e i mortai per la molitura e per la preparazione delle salse. Ed ora tuffatevi nei viottoli del mercato stesso fra mais, focacce, semole e fagioli, semi d’amaranto e oleaginosi di chia, sale, frutta, semi di zucca, tortillas e tamales ripieni d’ogni ben d’Iddio (persino batraci e fiori), carne alla griglia e mille varietà di salsa al peperoncino all’avocado e all’acetosa e poi ancora pesce e crostacei, lepre in salmì, uccelli al mais tostato, accettate assaggi di pesce bianco al peperoncino giallo dagli ambulanti che sorridono coi denti guasti sotto un cielo così azzurro che fa lacrimare il sole mentre l’aroma dell’axolotl, il grosso tritone della laguna, vi punge le narici insieme a quello dei preparati a base di larve e insetti e poi uscite dal mercato e raggiungete una zona dove un quieto gorgoglio annuncia veri e propri orti idrici che come isole fermate da alberi vi rivelano piante basse con bacche oblunghe gialle o giallognole. Ecco com’erano gli antenati dei nostri pomodori. Nevvero.”

“Posso aprire gli occhi ora?”

“Certamente. Nevvero”.

“La sua descrizione è certamente evocativa ed ho piena fiducia nelle fonti che cita ma non le sembra che manchi qualcosa al suo affresco precolombiano?”

“Cosa? Nevvero.”

“Gli Aztechi facevano sacrifici umani o sbaglio? No, perché da come ne parla sembra una riedizione del “mito del buon selvaggio” di Rousseau.”

“No mio caro amico. Ci stavo arrivando per gradi. Scrive Cortés: “vi disponevate a mangiare la nostra carne e avevate già bell’e pronte le pentole col sale, pepe e pomodori.” In effetti il popolo azteco era antropofago e usava divorare braccia e gambe delle vittime, di solito prigionieri, in salsa di chimole (peperoni, pomodori, cipolle selvatiche e sale) o di tamales ( “aji” ovvero peperoncino, “pepitas”, semi di zucca, “tomatl”, pomodoro, “chiles verdes”, peperoncini verdi piccanti ed altre spezie). Il piatto si chiamava “tlacatlaolli” ed era un’esclusiva delle classi sociali più elevate, come il frequente consumo di bevande al cacao, anche se il popolino poteva procurarsi della carne umana con discrezione al mercato. Ovviamente uno dei principali ingredienti di tale efferata prelibatezza erano i nostri pomodori. Nevvero”.

“Scusi chef, posso permettermi una domanda?”

“Certamente. Nevvero”.

“Della cucina si occupa solo lei vero? La vostra maître de salle messicana, Maia, svolge soltanto il ruolo di cameriera?”

“Ovviamente. Perché mi pone questa domanda? Nevvero.”

“Non lo so ma per un attimo mi sono sentito come uno che entri in un ristorante cinese con un gatto.”

(Continua…)                                                          

Germano Innocenti

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