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Attualità | 30 ottobre 2025, 06:40

Al Caffè letterario di Bra si legge Tabacco Clan di Giuseppe Lupo

Un libro che celebra l’amicizia, la giovinezza e i suoi sogni, riflettendo la leggerezza degli anni ‘80

Al Caffè letterario di Bra si legge Tabacco Clan di Giuseppe Lupo

«Chi trova un amico, trova un tesoro»: è scritto più o meno così nel Siracide e nonostante la sua antichità rimane uno dei proverbi più utilizzati e più veri.

Leggere per credere “Tabacco Clan” di Giuseppe Lupo (Marsilio), che celebra un’amicizia lunga oltre 40 anni, un rapporto granitico che lega dagli anni ‘80 un manipolo di studenti fuori sede, nuovi emigrati dello studio, arrivati a Milano da ogni parte d’Italia, Sud in testa, e dalla vicina Svizzera.

Ciascuno ha un nome di battaglia, che si porta addosso ancora, non ci sono nomi propri nel racconto, solo soprannomi. Ognuno è stato il protagonista di avventure amorose, religiose, sociali, politiche, ciascuno avvolto nell’aroma del tabacco da pipa Clan, che sapeva di miele e di whisky e faceva impazzire le ragazze.

Ciascuno è stato un eroe a modo suo, tutti sono diventati il Clan (con la maiuscola), un’istituzione a metà tra la confraternita intitolata al sedere della Roberta della dominante pubblicità degli slip e il club da college inglese alla Bronski Beat.

Un gruppo di amici che, dopo quarant’anni, ha tutto il diritto di definirsi famiglia. Oggi una famiglia allargata dentro famiglie istituzionali. Il movente del racconto, piano, piano si affaccia al lettore: in una fredda mattina di gennaio, i moderni picari si ritrovano sulle sponde del lago Maggiore per festeggiare il matrimonio di due dei loro figli. La famiglia di Via Celoria, che per un paio di anni ha abitato il pensionato di preti severissimi nella nebbiosa Città Studi di Milano, oggi, tra una partita di calcetto e un infortunio, un tiro al biliardo e un bicchiere di prosecco, si è ricostituita dentro un hotel per l’ennesima festa goliardica.

Le voci del Presidente, del Vicepresidente, del Segretario, di Famà, Kasperczak, Franz, Vice Capellone, diventano un coro che ricorda quei ragazzi che mettevano la cravatta solo alle feste, che cercavano le milanesi dalle gambe lunghe, lontane dalla periferia. Erano studenti di economia e commercio, di chimica, di medicina, ora sono professionisti più o meno affermati, più o meno realizzati, che si tengono stretti appellativi, frasi e rituali con la stessa determinazione di una tribù in via di estinzione.

La voce timida del Piccolo Chimico, forse l’autore stesso, ha il compito di stanare i ricordi, di portare alla luce qualche nostalgia, di rivelare una verità nascosta. Non ci sono rimpianti, non c’è malinconia nel clan. La scrittura del ricordo, che tanto si confà all’autore, è l’esercizio prezioso che rende memorabile il passato.

Silvia Gullino

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