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Che tempo fa

| 01 ottobre 2016, 08:12

Cave panem

Varcare la soglia del panificio che somiglia ad un’oreficeria e sfilare il biglietto per essere serviti dalla bocca d’un fantoccio sorridente che risponde al goliardico nome di Peter Pan(e) notando che il locale è un cerchio con alle pareti caveau ricolmi di sfilatini e fruste

Cave panem

“Magnace er pane”: espressione romanesca (affondante di certo le sue origini in un’Italia post-bellica e miseranda) il cui significato letterale è un’invocazione a  non esagerare col companatico ma che, nella sua veste più gergale e maliziosa, diviene un sagace invito ad attenuare i propri appetiti sessuali.

Da sempre feticisti dei carboidrati e incapaci di sedersi a tavola senza tale, liturgico, alimento, realizzare che è domenica e uscire alla ricerca d’un proverbiale tozzo di pane come un mendico francescano che ai poveri abbia donato l’opzione sul proprio futuro e la generazionale certezza d’una pensionistica assenza.

Scovare un centro commerciale aperto e dopo aver parcheggiato in un altro fuso orario entrare ibernati dall’aria condizionata per raggiungere il supermercato fino all’angolo del pane dove un genio (di padre ignoto) ha concepito un self-service nella subliminale speranza d’ispirare focolai d’indipendenza in un popolo che al diritto di voto ha sostituito la patologia del selfie. E lì, liquefatti dal sollievo, sentirsi dire da un senile osservatore di cantieri e calatore di briscole (ormai vivo al solo scopo di dirompere l’altrui patrimonio genetico) che il pane da supermercato viene lavorato con un processo che usa una combinazione di miscelazione ad alta velocità con aggiunta di additivi e lieviti chimici che eliminano la fermentazione tradizionale.

Uscire dal centro commerciale senza pane ma con una gran voglia di incendiare il locale ospizio e guidare alla ricerca d’un forno felici come Hannibal the Cannibal alla sagra del pinzimonio quindi scorgere l’allettante insegna de “il Pane-girico” in una zona con una densità di prostitute di uno virgola cinque per abitante.

Varcare la soglia del panificio che somiglia ad un’oreficeria e sfilare il biglietto per essere serviti dalla bocca d’un fantoccio sorridente che risponde al goliardico nome di Peter Pan(e) notando che il locale è un cerchio con alle pareti caveau ricolmi di sfilatini e fruste. Aspettando il nostro turno e fissando attoniti due poltrone a forma di rosetta riflettere minuti numero otto (mentre si sfoltisce una clientela che sembra il casting per un’esecuzione texana) sulla trasformazione d’un bene di prima necessità dapprima in sofisticazione a largo consumo quindi in bene di lusso solo per il recupero d’ingredienti naturali e di tradizionali tecniche di produzione e a quel punto lasciare cadere gli occhi sul listino prezzi mentre l’infarto del miocardio si fonde alla furia distruttrice da velociraptor.

 

 

                                                                                                                                                            (continua…)   

De Mazan

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