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| 12 marzo 2020, 15:45

Ad Urbe “condìta” (seconda parte)

“Intende dire le archeo-cene?” Indugiare per la seconda volta dall’inizio della serata sul trasandato abbigliamento del professore in pensione che ora s’ispeziona un padiglione auricolare col mignolino sinistro. “Si.”

Ad Urbe “condìta” (seconda parte)

“Lei ritiene si tratti di una moda?” chiedere al nostro commensale che rimbocca i candidi capelli dietro l’orecchio dopo aver spazzolato gli gnocchi gratinati di puls fabata”, sorta di polenta di farro con fave secche e pecorino, libera rivisitazione di un piatto tipico della cucina dell’antica Roma, mentre noi sorseggiamo un calice di Merlot che ha preso il posto del dolcissimo vino “mulsum” tanto apprezzato nell’Urbe come gustatio (aperitivo).

“Intende dire le archeo-cene?” Indugiare per la seconda volta dall’inizio della serata sul trasandato abbigliamento del professore in pensione che ora s’ispeziona un padiglione auricolare col mignolino sinistro.

“Si.”

“Bè, non c’è ancora una diffusione capillare perché per proporre una simile offerta bisogna studiare e per saperla apprezzare mettere mani a libri e portafogli. Non è il caso di quest’evento ma normalmente le archeo-cene non sono proprio economiche. Però, a dispetto del fattore culturale, va detto che  la cucina romana “povera” ha il pregio di essere molto sana. Ad esempio gli gnocchi appena serviti sono ricchi di selenio, vitamine e proteine e si usavano anche come polenta cotta con aggiunta di farina di farro in acqua e sale. I più ghiotti li arricchivano con legumi, fave, cavoli, cipolle e formaggio.”

“Perché ha tenuto a sottolineare cucina “povera”?”

“Nei decenni che separarono Diocleziano da Costantino Roma scivolò in una crisi morale e politica che condusse la classe dirigente alla decadenza. Anche alimentare. Lo spettro d’un’imminente fine trasformò l’impero in una continuata orgia con eccessivo consumo di vino cotto in pentole di piombo, abnorme utilizzo di papavero, sale e pepe, per non parlare della scarsa attenzione per la ruggine del grano o dell’utilizzo della spiga della segale cornuta, per la carne poi va fatto un discorso a parte …”

“Voilà! Ecco a voi un piatto di farsiccia in salsa di senape antica e cymae in defruto, una pietanza direttamente ispirata al ricettario di Apicio.” Mentre il cameriere finisce di servire i piatti l’anfitrione della serata si prepara ad illustrarne la lavorazione tatticamente disposto di fronte a una mensola piena di confezioni di farsiccia siglata “Archeo-food”.

“La farsiccia, alimento di nostra invenzione, è una salsiccia di maiale, farro e frutta secca qui presentato con cime di rapa in defruto e cioè mosto cotto (dal latino “defrutum”). Buon appetito.”

“Si diceva della carne a Roma”, incalzare il prof che ha già divorato una farsiccia e fissa il tavolo imbandito come un feticista un plantare ortopedico.

“Se ne consumava troppa di carne nei banchetti romani o troppo frollata e questo minava la salute dei cittadini più abbienti che divoravano asini selvatici, cervi, ghiri (allevati negli appositi “glinaria”), fenicotteri (di cui era ricercatissima la lingua) ma anche gru, pavoni, pappagalli e cicogne.”

“Un’ornito-mattanza.”

“Esatto. Anche se esisteva un vero e proprio tabù alimentare per i buoi, non solo perché erano animali da lavoro ma anche perché si sacrificavano nei riti sacri, molto apprezzato era invece il maiale, anche da un punto di vista estetico, mentre erano molto amati i pesci allevati in apposite piscine, su tutti molluschi e ostriche dalle quali si ricavavano delle sfiziosissime polpette profumate.”

“Che vuol dire che il maiale era apprezzato anche da un punto di vista estetico? Comunque queste farsiccie sono letteralmente affogate nella salsa di senape mentre le cime di rapa sono ottime.”

Mentre i camerieri rimboccano il vino rosso la litografia di Annie Lennox coi suoi occhi alieni sembra inquisire la sala ormai preda d’un’ebbrezza consonante con la decadenza romana.

“La cucina romana di quel periodo viene spesso definita “mimetica” perché il cuoco operava una manipolazione degli ingredienti per stupire il palato di chi mangiava, in tal senso il maiale era molto usato, soprattutto le tettine delle scrofe che venivano presentate sotto forma di cacciagione o pesci, ma anche le vulve che, essendo considerate un simbolo di fertilità, proteggevano dal temutissimo malocchio. Ma al di là del folclore tale mimetismo si espletava attraverso i “condimenta”, e cioè aglio, prezzemolo, zenzero, zafferano, origano menta e datteri e i quattro punti cardinali delle spezie capitoline: pepe, cumino, sale e ligustico.”

“Siamo giunti all’epilogo della nostra cena archeologica e a breve vi verrà servito il “merseum”, un dolce di semolino e frutta secca. Ci tenevo a sottolineare soltanto tre cose prima di salutarvi e ringraziarvi. Innanzitutto se è vero che sono giunte a noi varie fonti sulla cucina degli antichi romani, non solo il già citato libro di Apicio ma anche le opere di Mazio o il “De Agri Coltura” di Catone, va però spiegato che in nessuno di questi ricettari si specificano le dosi quindi la grande sfida di ogni archeo-cuoco è quella di indovinare pesi e misure degli ingredienti.”

“Il pepe era costosissimo e conservato in locali appositamente costruiti, veniva prescritto come calmante per dolori mestruali o antidoto contro l’avvelenamento da cicuta, essendo raro e prezioso alcuni lo adulteravano con bacche di ginepro o sali di piombo mentre Apicio ne usava in quantità industriali. Fu lui, mescolandolo al miele, a inventare il celebre pan pepato che ancora oggi si fa a Siena e in alcune case romane. Secondo altri Apicio fu altresì l’inventore del pane e uva che si consumava in era tiberina nelle termopoli e che oggi sopravvive nella moderna pasticceria milanese sotto forma di panettone.”

“Una cosa c’avevano i milanesi e pure quella l’hanno inventata i romani.”

“La seconda cosa che vorrei sottolineare”, prosegue il triclinarca mentre inizia la parata di grappe e amari, “è che in ciò che abbiamo proposto siamo stati onesti ma filologicamente scorretti, ad esempio il mosto cotto (presente stasera e usatissimo dagli antichi romani) veniva fatto bollire per venti ore in un calderone di piombo prima di essere servito ed è ovvio che questo oggi sarebbe pericoloso oltre che anti-igienico”.

“Onesti ma filologicamente scorretti. Come disse una mia ex sul mio non volermi impegnare.”

“Sarebbe?” mormora il prof già alla seconda grappa bianca.

“Che ero stato chiaro ma chiaro non significa corretto”.

“Ah ah ah. Il cumino era un toccasana per lo stomaco e mitigava gli eccessi alimentari mentre il ligustico (introvabile oggi) era, come il sedano, un potente diuretico. Eppure il condimento più celebre della Roma tiberina (e non solo) era il garum. Ne avrà sentito parlare.”

“E infine”, conclude l’anfitrione incorniciato dall’ovale di Annie Lennox,”questa cena archeologica rappresenta il modo di mangiare dell’aristocrazia romana e non certo del popolino i cui gusti alimentari possiamo dedurre ma senza una specifica documentazione. Grazie.”

L’applauso copre la voce del nostro vicino di sedia che, ormai paonazzo in viso, ha appena chiesto al cameriere di lasciare direttamente la grappa sul tavolo.

“Prego?”

“Dicevo che fu proprio il “popolino”, come l’ha definito il nostro involontariamente classista oratore, a salvarsi dalla decadenza alimentare perché non poteva permettersi la cucina mimetica con la sua infinita varietà di spezie e doveva accontentarsi (si fa per dire) degli alimenti base del tempo.

“E il garum?”

“Alici, sardine, aringhe non eviscerate con frammenti di sgombri e ricciole venivano fatti stagionare in vaschette per due o tre mesi con sale ed erbe aromatiche quindi, a fine fermentazione, un cestello premeva fungendo da filtro per il sugo sottostante. Ne esistevano tre qualità, il “garum flos floris”, molto pregiato e brunito dal sangue dei tonni, il liquamen (meno lavorato) e l’alleo, una salsetta piccante da poco prezzo che Apicio sofisticava con miele, erbe aromatiche, aceto o nella salsa verde per la cacciagione. Plinio sostiene fosse molto usato anche come medicamento (miracoloso contro emorroidi e bruciature) anche se il garum non è un’esclusiva romana visto che ne esisteva già presso i Greci ed oggi se ne trovano degli equivalenti nella “pissalat” nizzarda, nella “tsiros” greca o nella “fesikh” egiziana. Per qualcuno però la vera erede del garum è orientale e si tratterebbe della salsa “nuo-mam” vietnamita. Resta il fatto che il garum e il “defrutum” (mosto cotto) erano le salse simbolo della cucina di Apicio e di quella romana in generale.”

“E sale e zucchero?”

“Nell’antichità i romani avevano un’alimentazione quasi esclusivamente vegetariana così il sale era molto usato per compensare l’eccedenza di potassio. Da Augusto in poi ne vigeva il monopolio ed esso era usato con le erbe o in umido con pepe e aromi vari, anche se l’utilizzo più importante era per la conservazione delle carni. Per quanto invece riguarda la dolcificazione pochissimi conoscevano il “saccharon” importato dalle Indie al quale si preferivano il mosto cotto, i datteri, l’uva passa e il vino passito, ma soprattutto il miele che era caro quanto il migliore olio da frantoio e che i romani amavano consumare dolce e affumicato, con delle eccellenze come quello di timo o di serpillo.”

“Va tutto bene?”

“Si. Sono solo ubriaco. L’unico vantaggio della solitudine è aver barattato il senso di colpa con la pena per se stessi. Ora ad esempio sto avendo un’effimera visione d’un banchetto del I secolo d.c: eleganti patrizi con una leggera veste bianca (“synthesis”) giacciono sdraiati su lecti triclinares mentre sgargianti schiavi dai capelli unti d’olio trinciano loro il cibo che raccolgono con un “catinus” o “ligula” (cucchiaio), visto che i coltelli arriveranno dopo e le forchette molto dopo, pulendosi il mento con una “mappa” (tovagliolo) mentre la disposizione degli alimenti sulla “mantèla” (tovaglia) ricorda le mistiche proporzioni delle nature morte di Ercolano. Ora tutto è luce perché, a differenza dei “vasa seguntina”, e cioè delle stoviglie di legno o coccio della povera gente, quelle nobiliari sono d’argento o cristallo (“pocula”), alcune di elettro, una lega di argento e oro, o di murra, una pietra opaca capace di esaltare le qualità del vino. Tutti i bicchieri e i piatti sono istoriati di gemme e pietre preziose, dai “calices” a barchetta ai “rhytion” coni-formi. Lo sfarzo della tavola è tale che persino la viziosa Salomè rinuncerebbe alla testa del Battista se Erode le offrisse dei pocula gemmata ricolmi di vino.

Ma tutto sta per finire nei riti funebri con le teste dei buoi cosparse di “mola” (farro macinato e sale) e i “refrigeria” che si consumeranno in prossimità delle tombe.”

“Vuole che la riaccompagni all’auto?”

“Non ho diritto al mio schiavo personale? Al mio puer ad pedes?”

“Non lo so. Però può appoggiarsi al braccio d’un amico.”

Germano Innocenti

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