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Choconews | 24 febbraio 2023, 08:33

Cioccolata e Quaresima

La cioccolata è permessa, ma, se per digiuno si intende la rinuncia volontaria a qualcosa di molto gradito, sarebbe un bel fioretto se, nei venerdì di Quaresima, il cristiano decidesse in modo consapevole di non assaggiare neppure un cioccolatino.

Cioccolata e Quaresima

Siamo entrati in Quaresima, per la Chiesa un tempo liturgico importante che prepara alla Pasqua, durante il quale sono previsti momenti di penitenza e di digiuno.

Ci fu un tempo in cui era molto sentito il dilemma se la cioccolata rompesse o no il digiuno religioso. Il biblista Claudio Balzaretti, nel libro “La cioccolata cattolica” (Edizioni Dehoniane), ripercorre la vicenda dell’arrivo della cioccolata sulla tavola degli europei “che, pur non avendo rappresentato una vivanda tabù, suscitò una notevole serie di grattacapi dal punto di vista religioso”.

La diatriba era stata avviata dal medico Juan de Cardenas che ne giustificava, sotto il profilo della salute, il consumo da parte di chi viveva nelle Indie, ma evidenziava anche come contrastasse con il precetto del digiuno. Il digiuno ecclesiastico, infatti, sanciva che liquidum non frangit, ovvero la bevanda non lo interrompeva, ma la cioccolata era troppo sostanziosa per considerarla solo come bevanda e così gradevole al gusto da non rappresentare una “mortificazione della carne”.

I Domenicani erano contrari al consumo della cioccolata in Quaresima senza se e senza ma. Immediata fu la reazione di chi amava il cioccolato o aveva investito sul suo commercio, simile nell’intensità a quella che c’era stata in pieno Medioevo per la questione dello zucchero.

I Gesuiti erano a favore, anche perché avevano considerevoli interessi nelle piantagioni di cacao del Sudamerica.

Nella disputa furono coinvolti Cardinali e Papi e, infine, Papa Pio V sentenziò nel 1569 che nei periodi di digiuno si poteva consumare una tazza di cioccolata al giorno, perché era liquida. Nel 1627 di cioccolata si trattò anche nei libri di etica. Una delle massime autorità gesuitiche, il “dottor sottile” padre Antonio Escobar y Mendoza nella sua “Teologia morale” assolse la cioccolata considerandola pura bevanda se conteneva solo un’oncia di cacao e una e mezza di zucchero sciolte in acqua.

La querelle continuò ancora. Il medico genovese, Francesco Felici, che si definiva “cioccolatiero christiano”, dava alle stampe la Risposta dimostrativa, in cui sosteneva che la cioccolata rompe il digiuno. Lo spagnolo Solorzano y Pereyra riteneva la cioccolata addirittura peccaminosa perché risvegliava ardori sessuali e portava come prova il banchetto “afrodisiaco” di Montezuma, descritto da Bernal Diaz del Castello, al tempo della spedizione di Hernán Cortés in Messico.

Si era in piena Controriforma e, per quanto la Chiesa dettasse misure austere in ogni campo, per la cioccolata non si tornò indietro. Si sostenne perfino che era gradita a Dio. Nel 1680 Giovanni Batista Gudenfridi (pseudonimo dietro il quale si nascondeva forse un gesuita) scrisse che un angelo aveva rinvigorito con una tazza di cioccolato Santa Rosa di Lima, la “vergine del Perù” un giorno in cui era sfinita dal rapimento mistico. Poteva un angelo di Dio attentare alla sua castità e offrirle una bevanda peccaminosa?

La cioccolata, dunque, è permessa, ma, se per digiuno si intende la rinuncia volontaria a qualcosa di molto gradito, sarebbe un bel fioretto se, nei venerdì di Quaresima, il cristiano decidesse in modo consapevole di non assaggiare neppure un cioccolatino.



Cristiana Lo Nigro

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