Era la festa della Candelora, il giorno in cui vengono benedette le candele.
2 febbraio 1945: la gente era a Messa grande. Si sentì forse lo stridore dei freni della camionetta, e subito il sapore della paura si impadronì dei presenti. Mancavano tre mesi e mezzo alla Liberazione, ma per i testimoni dei fatti quel giorno era lontano, lontano più che mai. E doveva ancora scorrere molto sangue.
I repubblichini entrarono in quel luogo sacro con i mitra spianati, presero 14 persone, le schierarono contro il muro della chiesa.
“Non mi ricordo bene, ma fecero dei cambi, poi alla fine comunque erano in 14 là schierati.Avevano un mitra sul tettuccio della camionetta, hanno aperto il fuoco: sono caduti tutti a terra.
Uno però era rimasto soltanto ferito, allora si è rialzato, si è messo in ginocchio. Il comandante con la pistola ha dato il colpo di grazia, a tutti: ce n’era un altro che era sopravvissuto, ma la seconda pallottola è stata letale.
Invece quel ragazzo, quello che si era rialzato, si è beccato la pallottola in faccia, il proiettile gli ha perforato la mascella. E non è morto, si è salvato due volte.Quando i fascisti sono andati via, i presenti lo hanno soccorso e medicato.
Io lo conoscevo, quella cicatrice non gli è mai andata via.”
E poi ci sono le altre cicatrici, quelle del cuore e della mente: quelle che non si saldano, che sfregano sempre con i ricordi, e si riacutizzano.












