Si sta parlando molto della bellezza, in quanto necessità impellente propria di questi tempi. Per noi, per me, nati e cresciuti in altra epoca, potrebbe apparire superfluo evidenziarla, discuterne, perché insita nel nostro modo di vedere le cose, di vivere.
Ad oggi, invece, pare non essere più così scontato. È doverosa la necessità di riaffermarla in ogni momento perché sembrerebbe esserci in atto un movimento contrario e molto forte, di affermazione del bieco, dello sconcio, del brutto, del laido, del volgare. Che si accompagna benissimo alla maleducazione e alla voglia di sopraffazione dilaganti.
Di esempi ne abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, a bizzeffe. Nei programmi televisivi, quelli di massa, trasmessi nelle ore di massimo ascolto, la sguaiataggine e la volgarità, il chi urla di più hanno preso il posto delle pacate trasmissioni che eravamo abituati a vedere alla tv in bianco e nero. E che si sia giunti forse ad un saturazione del becero è dato a vedere da alcuni piccoli, ma significativi segnali. La riproposta di vecchi miti come le gemelle Kessler o di Raffaella Carrà invitati nelle vesti di ospiti di lustro del festival di Sanremo serve a far ricordare, per chi c'era, e insegnare a chi non c'era, che non è sempre stato tutto così volgare.
L'uso del turpiloquio, infatti, nella tv nazional-popolare era bandito. In quelli che allora non si chiamavano ancora talk show – anche l'uso della lingua inglese era parsimonioso e se una parola esisteva in italiano, quella si usava – gli ospiti erano sempre molto educati, aspettavano il loro turno per parlare, non insultavano il vicino di poltrona.
Erano i genitori che ci insegnavano a parlare “bene”. Non dire parolacce, ci dicevano, non essere volgare. E noi non è che facessimo molta fatica a dargli retta, loro per primi non ne facevano uso. Neppure a scuola, se ne sentivano. Qualcuno, in verità c'era, che si “sporcava la bocca con quelle parole lì”. Erano bambini che ricordo “diversi”: di famiglia povera, vivevano un disagio sociale che allora non era ancora riconosciuto come tale. In maggioranza maschi, e qualche rara femminuccia che ai miei occhi apparivano “brutti, sporchi e cattivi”, che li vedevi già da lontano, prima di conoscerli, prima di parlargli assieme. Tiravano fuori la parolaccia come se non esistesse un altro termine, soddisfatti dello sconcerto suscitato nel bambino educato che si trovavano davanti. Che collegava il turpiloquio al peccato imparato a catechismo: se dici quelle parole lì, vai all'inferno.
A tal proposito, mi viene in mente un episodio addirittura imbarazzante riguardo il candore di una bambina, alunna di una mia cara amica, che in una verifica d’italiano, scrisse nel suo compito che suo papà, nel pomeriggio del giorno prima, aveva preso il forcone per andare nei campi a girare le “frottole” di paglia, perché la parole “balle” le sembrava troppo sfrontata, ed audace, per essere inserita in un tema in classe.
Abbiamo poi imparato, noi educati, che non solo dire parolacce non comporta nessuna dannazione eterna, ma può anche rivelarsi una sensazione liberatoria, se pronunciate in certe circostanze. Un bel “evvaffa...” durante una partita, in situazioni stressanti, senza esagerare, quando proprio non se ne può più: quando ci vuole, ci vuole.
Eccheccacchio.













