Be quiet and McDrive in una sciropposa serata di Novembre con una nebbia che si taglia col machete e una pre-sbronza da Negroni a stomaco vuoto che inaugura una fame chimica da tossico con la mascella slogata.
Ordinare al totem parlante:
1 Bic Mac (257 cal);
1 McChiken (272 cal);
2 Chicken McNuggets (604 cal);
1 McRoyal Deluxe (495 cal);
2 Patatine fritte (646 cal),
per un totale di 2274 calorie, quindi sostare in folle come un basista fissando la metafisica “M” dorata stagliarsi contro la notte rosè per la luci della città (niente a che vedere con Chaplin) e gli scarichi industriali. Nel frattempo aprire Youtube sulla nostra recente fissazione: il food challenge.
Superati ormai i ciccioni vintage che si ingozzavano di torte coi polsi legati dietro la schiena, dozzine di veri e propri atleti del cibo incassano milioni di like infrangendo record e sgominando rivali (che al loro cospetto sembrano riluttanti assaggiatori di corte), mulinando la bocca come piraña di fronte a kebab giganti, burritozilla, pizze grandi come canoe e hamburger a schiera.
Nel frattempo la cassiera del Mc ci consegna il nostro florilegio calorico regalandoci il suo miglior sorriso a barre mentre registra mentalmente le ordinazioni ronzanti dalla cuffia wireless e noi facciamo ritorno a casa inseguendo invisibili tracce di salsa barbecue.
Perché il McDonald’s sa, come una temprata professionista del piacere, che prima o poi per pigrizia o depravazione, solitudine o semplici ragioni economiche, noi torneremo a trovarlo, timidi e imbarazzati come adolescenti di fronte a un’edicola porno. La sua immobilità basilisca e ingannevole come quella d’un predatore che si finge morto prima di spiccare il letale salto.
Educati al food challenge dal tubo, disporre sulla tavola i sette elementi di trash food acquerellati dalle salse quindi stappare tre bottiglie di rosso a gradazione ascendente e iniziare a cronometrare la di noi impresa sbirciando le eroiche gesta dei maestri della Rete.
Caramellando di senape le pepite di pollo dimezzare il McRoyal Deluxe mentre Randy Santel divora un calzone da quattro chili in poco più di trenta minuti e la graziosa Kate Ovens si fa fuori un hamburger alto come una colonnina porta-cd concludendo che il food challenge è un po’ come l’automobilismo: ci sono sfide dirette e prove a cronometro.
Simile al body building ( e non è un caso che molti partecipanti lo siano) punta alla massimizzazione calorica ed è piuttosto ovvio che si fondi sul porn food, ma il dato vertiginoso è il successo che miete tale disciplina (?): milioni di like e commenti come scie di cometa ai mangiatori seriali che inaugurano locali, firmano autografi e ovviamente guadagnano come tutti i lavoratori del Web.
In otto minuti ho quasi finito i chicken McNuggets e il McRoyal Deluxe mentre la prima bottiglia di vino volge al termine: un asiatico dai capelli lilla (come uno dei Bee Hive) che peserà si e no quaranta chili con un cappotto di cammello e un’incudine in braccio si è fatto fuori due pizze in due minuti.
Se le gare a cronometro sono impressionanti le sfide dirette umiliano i gregari che restano visibilmente indietro rispetto ai propri idoli, come se Rocco Siffredi ingaggiasse una gara di centimetri coi propri comprimari durante una gang bang.
Alla fine d’ogni challenge, del cibo resta un’incolore mota di avvilite proteine e sventrati carboidrati mentre il campione di turno mostra fiero l’addome rigonfio come grottesco contraltare alla “pancia a pentola” dei bimbi africani.
Non c’è morale, solo prestazione.
Inizio il mio McChicken mentre la star indiscussa del food challenge, Matt Stonie, inforna 12000 calorie in un’ora scarsa e in un altro video consuma su una fiamminga un pranzo del Ringraziamento per otto persone.
È un giovane ragazzo americano dai lineamenti orientali i cui occhi sembrano ricavati da un punteruolo rovente e che si ingozza a una velocità intollerabile ripiegando il cibo e ingoiandolo quasi senza masticare, come gli squali che mordono e stritolano la preda usando la mandibola per poi rimasticarla in seguito.
A metà della nostra seconda bottiglia di vino e dopo aver iniziato le patatine al cheddar realizzare contemporaneamente le due principali motivazioni (anzi tre) per cui non saremo mai dei primatisti del food challenge: siamo troppo lenti, non siamo né magrissimi né palestrati e soprattutto nessuno dei food champions consuma alcol durante la performance ma solo bibite, acqua o energy drinks.
Di certo non si tratta d’una scelta morale vista l’orgia alimentare. Più semplicemente se ognuno di loro dovesse lubrificare alcoolicamente i quantitativi di cibo ingerito crollerebbero sbronzi dopo un quarto d’ora.
Intanto nella nostra deprimente gara a cronometro abbiamo consumato “appena” 1700 calorie in cinquanta minuti, e cioè un decimo del piccolo squalo dagli occhi a mandorla che peserà la metà di noi ma, stappando la terza bottiglia per corroborare il panino finale, concludere di essere decisamente più tagliati per un “alcool challenge” e infine chiedersi il perché delle perfette condizioni fisiche (almeno esteriori) dei gladiatori alimentari.
Bulimia? Corrono in bagno poco dopo la performance come facevano gli antichi romani nei loro vomitorium? Oppure alternano digiuni a solenni abbuffate? Sicuramente coi loro milioni di like avranno uno staff medico che ne monitora ogni depravazione gastronomica ma la cosa paradossale è che probabilmente questa gente si “allena” come ogni bravo atleta professionista.
Trasformare un bisogno primario in uno sport significa renderlo un bisogno secondario declassando il gusto a semplice voracità e il nutrimento a mero apporto calorico.
Ciò nonostante non si riesce a smettere di guardarli.
Mentre addentiamo svogliatamente quel monumento al cibo anabolizzato che è il Big Mac, chiedersi se fra la sadica pignoleria culinaria di Masterchef e i pantagruelici banchetti del food challenge non ci sia il minimo comune denominatore del simbolismo: il cibo non più solo cibo ma Rappresentazione.
Arrancando sul Big Mac virare il tubo sull’Italia e, superata la prevedibile parata di smilzi sosia di Matt Stonie o improbabili palestrati in grado di ingurgitare industriali quantitativi di alimenti conservando gli addominali a tartaruga, fermarsi su un individuo (x 3) dal simpatico nick: “you tubo anche io”.
Centosettanta chili, cranio a pera, dita come würstel e occhiali dalla montatura pesante, quest’uomo sfida il mondo dei food challenge dalla neorealista cucina di casa sua; inquadratura fissa, accento calabrese e smartphone appoggiato a una bottiglia d’acqua, zero montaggio, zero post-produzione, zero effetti speciali.
In una clip lo osserviamo ingurgitare un chilo di tiramisù e un polletto “di rinforzo”, in un’altra un’intera torta, a volte si riprende dai dehors delle aree di sosta con degli “spuntini” che mostra fiero ai suoi “follouers”, ma la cosa che più colpisce di “you tubo anche io” è che in lui è bandita ogni forma di competizione e monetizzazione. E soprattutto velocità.
Mangia molto ma senza countdown, non ha record da infrangere né sfide da accettare e, a differenza degli altri mangiatori dell’etere, ha una storia personale che affiora, insieme alla morale buonista, commuovendo migliaia di spettatori.
Orfano di madre con un padre dinoccolato che ogni tanto attraversa lo schermo come lo sbadato cameraman d’un’emittente privata, il nostro amico calabrese fa video lentissimi che durano anche più d’un’ora e seduce per la sua ipnotica banalità.
Ovviamente diventa un caso e in molti si preoccupano per la sua salute visto che pesa quattro volte gli antagonisti a stelle e strisce ma lui tranquillizza tutti come una sorta di papa bulimico. La sua solitudine ci rassicura perché ci appartiene così come la consolatoria fuga nel cibo che non ha niente a che vedere con la spettacolarizzazione pornografica dei suoi competitor, egli è un altro umanissimo mostro alla Cinico tv così finiamo il Big Mac di fronte alla cordiale pelata che sembra una rapa gigante, ninnati dal metronimico suono della sua voce che ci ricorda il piacere del gusto e il gusto del piacere.