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Attualità | 19 febbraio 2023, 18:30

DA KIEV ALLE LANGHE ANDATA E RITORNO/ Dal bar 'Bimbo' di Kyiv, le storie di tre giovani che lavorano sotto le bombe [FOTOGALLERY]

La nostra corrispondente Bogdana ha visitato uno dei bar più famosi della città: il "Bimbo Kaba & More", una caffetteria che dal 24 febbraio cerca di resistere in una normalità ormai totalmente stravolta

DA KIEV ALLE LANGHE ANDATA E RITORNO/ Dal bar 'Bimbo' di Kyiv, le storie di tre giovani che lavorano sotto le bombe [FOTOGALLERY]

In questo appuntamento con i racconti dai territori martoriati dalla guerra in Ucraina, non ci siamo voluti muovere di molto. Siamo rimasti nella capitale. La nostra corrispondente Bogdana ha visitato uno dei bar più famosi della città: il "Bimbo Kaba & More". Per gli amici conosciuto, semplicemente, come “il Bimbo”.

Un luogo, prima della guerra, conosciuto e molto apprezzato anche dai turisti europei. Il locale ha due sedi: la principale sorge in quella che era la zona della movida notturna.

Qui Bogdana ha incontrato i tre ragazzi che ci lavorano. Hanno circa vent’anni, ragazzi come tanti. Come chi ,nel nostro Paese, lavora in bar, caffetterie e pub. Con la differenza che vicino a loro, in un giorno come tanti, hanno cominciato a cadere le bombe.

I tre ragazzi sono Anya 22 anni, Daryna 21 anni e Daniele 24 anni, abbiamo raccolto i loro racconti, in cui rivivono quel 24 febbraio del 2022 e come, quel giorno, ha cambiato fino ad oggi la loro vita.

Anya Snitkina ha 22 anni e viene dall’oblast' di Poltava, vive a Kiev da cinque anni. Da circa tre anni lavora al “Bimbo” e, dall’inizio del conflitto, in sostanza è stata nominata responsabile. Prima di questa promozione, sempre nel team, ha fatto la barista e la cameriera.

"Il periodo precedente agli eventi del 24 febbraio – racconta Anya – è sicuramente quello più piacevole per la nostra caffetteria. Durante l’inverno il “Bimbo” acquista un’atmosfera speciale, magica, molto famigliare. Ci sono meno clienti e quelli che ci sono vengono a scaldarsi con un thè, a scambiare chiacchiere davanti a una tazza di caffè, ascoltando buona muica.

Spesso sentivo i miei colleghi parlare di una possibile offensiva russa, ma personalmente ero molto scettica a riguardo, anzi, ho sempre detto loro di non parlare di certe cose, creando inutili tensioni soprattutto tra le mura del bar.”

Purtroppo, però, il 24 febbraio 2022 quello di cui i colleghi di Anya parlavano, si trasforma in realtà.

“Quel giorno – racconta Anya – non mi hanno svegliato le esplosioni. Avevo lavorato fino a tardi e dormivo profondamente a differenza dei miei colleghi che vivono a Obolon, un quartiere situato a nord di Kyiv. Loro sì, sono stati svegliati da quelle terribili esplosioni.  Tutti quelli che erano stati svegliati dalle deflagrazioni, hanno subito iniziato a scrivere su chat e social, cercando di darsi delle risposte e soprattutto chiedendosi cosa fare e dove andare.

Io mi sono svegliata molto più tardi e ricordo che la prima cosa che mi fece prendere contatto con quello che stava accadendo, fu un post su Instagram di un mio amico, che elencava la dislocazione dei rifugi antiaerei di Kyiv. 

Sul momento mi venne da ridere, pensando anche ai discorsi che avevo sentito dai colleghi, poi, continuando a scorrere i post, ho smesso di ridere. Ho capito quello che stava succedendo realmente e nulla è stato più divertente, solo una forte ansia e la sensazione di essere ancora in un sogno, un brutto sogno, con la sola voglia di svegliarmi”.

Superato il momento di incredulità, in lei prevale la razionalità, ci racconta di essere uscita per fare qualche scorta, prevalentemente di acqua e soprattutto per rendersi effettivamente conto della situazione, respirare e capire l’atmosfera, un giro per il quartiere anche per non soccombere al panico generale.

“Tutto sembrava tranquillo – racconta Anya – e il “Bimbo” ha comunque aperto, come aveva fatto nei giorni precedenti. I clienti all’interno erano silenziosi, qualcuno beveva il suo thè, qualcun altro veniva a prendersi una fetta della sua torta preferita da portare a casa. La situazione era più surreale che stressante. Ad un certo punto è arrivato il titolare dei nostri due locali, che ci ha comunicato che da quel momento si doveva chiudere a tempo indeterminato, di cercarci dei posti sicuri dove andare e che potevamo prendere qualsiasi prodotto o cibo dal locale e portarlo a casa.

Io e i miei colleghi sul momento rimanemmo spiazzati, ci sembrava una decisione sbagliata, nel locale c’erano ancora clienti che stavano consumando come in un qualsiasi giorno. Ma quella era la decisione del proprietario, quindi chiudemmo il locale”.

Chiuso il locale i ragazzi decidono affrontare la situazione facendo gruppo, andando a vivere tutti nello stesso appartamento, per farsi coraggio e non essere soli, ma anche per aiutarsi nella difficoltà di reperire cibo e generi di prima necessità, cercando di trovare il necessario correndo il rischio di trovarsi in mezzo alla strada durante un allarme aereo, tutto entro le 17, orario in cui scattava il coprifuoco.

“Il momento più difficile era la notte – racconta Anya - riuscire a mantenere la calma ascoltando i rumori delle esplosioni. Le giornate erano più pesanti da affrontare. Una grande quantità di notizie che non avevi il tempo di filtrare, uno stato depressivo generale e lacrime quotidiane di ognuno di noi per la consapevolezza che la nostra pace e il nostro senso di sicurezza, ci erano stati tolti”.

Le paure sono tante e non soltanto per le bombe, tutte le attività commerciali erano chiuse, soprattutto quelle di ristorazione, di riflesso la paura di rimanere senza soldi non avendo più uno stipendio.

“Bisognava essere più prudenti”, racconta Anya, “si facevano liste, si minimizzavano i prodotti, si mangiava meno in generale, si cercava di fare un pasto completo una volta al giorno, cercando di mettere da parte qualcosa per fare degli spuntini”.

In quel periodo l’Ucraina vive un momento dissonante, quasi surreale, mentre a Kyiv i negozi, le farmacie, i bar, sono chiusi, a Leopoli si vive una vita normale, le persone fanno la spesa, vanno al bar a fare colazione, come se a Torino la vita fosse normale, mentre a Firenze si vivesse dentro i rifugi antiaerei.

Per Anya la situazione però dura poco, questa atmosfera dove sembra che tutto si sia fermato per "aspettare giorni migliori", che per altro non si sa se ci saranno, le va stretta.

“Volevo vivere ora”, racconta, “quindi presi la decisione di tentare di riaprire il “Bimbo”. Andai a parlare con il proprietario e gli chiesi di poter provare, eravamo già a metà marzo. Tra l’altro abitavo vicino al locale, quindi non avevo neanche necessità di prendere mezzi pubblici, che in quel momento non funzionavano. Lui accettò la mia idea e mi diede l’opportunità di provare, facendomi responsabile del locale. Avevamo ancora qualche scorta di caffè, latte e cacao, decidemmo di iniziare con quello che avevamo. In quel momento non contavano i soldi e l’incasso, l’importante era esserci, se qualcuno poteva pagare, bene, altrimenti offrivamo noi. L’importante era essere tutti vivi e soprattutto esserci”.

“Anche i nostri clienti entrarono dello stesso mood – prosegue Anya - certo all’inizio erano molto pochi, ma vedere i loro sguardi quasi increduli quando gli veniva detto che non avevamo solo latte normale, ma che potevamo preparare il caffè con latte senza lattosio o a base vegetale, è stato bellissimo. Offrire una sensazione di normalità, faceva bene a loro e anche a noi, riempiva entrambi di gioia. Quando volevamo offrire qualcosa a qualcuno, le persone non solo si rifiutavano, ma lasciavano anche la mancia. Abbiamo lanciato l'iniziativa del caffè sospeso: ogni ospite poteva pagare il caffè per un militare o per una persona che in quel momento non poteva permetterselo, abbiamo cercato anche noi di aiutare, per esempio acquistando i dolci da una pasticceria che stava, come noi, cercando di ripartire, abbiamo iniziato anche noi a dare una mano come volontari, mettevamo a disposizione le nostre cucine e preparavamo caffè per i militari in servizio e comunque per chi ne aveva bisogno. Ogni giorno arrivavano sempre più clienti e abbiamo iniziato a riprendere vita. E non intendo dal punto di vista economico, ma parlo del nostro morale”.

Piano piano il team di lavoro si riforma, rientrano quelli che erano andati all’estero o che si erano spostati momentaneamente in zone meno pericolose. Il flusso di clienti torna ad essere quasi normale, come prima dell’inizio della guerra e la gente sembra adattarsi a questa nuova condizione di vita. Con qualche accorgimento e soprattutto adattamento, si cerca di avere una vita quasi normale.

“Inizialmente – racconta Anya – abbiamo deciso di rimanere aperti anche durante gli allarmi aerei, anche se era piuttosto pericoloso. Un giorno ci fu un bombardamento e un’altra caffetteria a pochi isolati da noi venne colpita, la probabilità che succedesse anche a noi era molto alta. Dopo il massiccio bombardamento del 10 ottobre, decidemmo comunque di chiudere durante i raid aerei.

C’eravamo adattati alla situazione e ci adattavamo man mano al cambiamento degli scenari. Ad esempio, avevamo adattato il ripostiglio con dei cuscini, una tv, il necessario per farci un caffè e qualcosa da spizzicare, un posto dove rifugiarci temporaneamente quando c’erano gli allarmi aerei. Così come ci siamo adattati quando sono iniziati i blackout. La mancanza di luce paralizza completamente il lavoro di una caffetteria. Abbiamo utilizzato le candele per illuminare almeno il 30% del locale, anche per far vedere da fuori che eravamo aperti e abbiamo sviluppato l’inventiva. Abbiamo iniziato a fare caffè filtrati, abbiamo comprato dei thermos per mantenere calde alcune bevande, anche perché non si sapeva mai quando ci sarebbe stato un blackout e quanto sarebbe durato. Nel tempo abbiamo migliorato questa "logistica" e ci siamo abituati a questi continui inconvenienti. Bisognava continuare, bisognava tenere duro. Abbiamo acquistato un generatore di corrente e tra noi scherzavamo dicendoci: che barista sei se non hai mai messo in moto un generatore? Che tipo di manager di un bar sei se non hai mai versato benzina da una tanica in un generatore? Che tipo di proprietario di un bar sei se non hai mai cambiato l'olio nel tuo generatore? Il generatore ci permetteva di lavorare meglio, faceva molto rumore, ma questo si è rivelato come un’ottima azione di marketing. Adesso le persone sentendo il rumore da fuori, capiscono che il locale è aperto e che siamo in grado di preparare qualsiasi cosa!”.

Con qualche disagio e una buona dose di voglia di “normalità” e d’inventiva, i ragazzi riescono ad andare avanti, a tenere aperta l’attività, non solo per loro, ma anche per i loro concittadini.

Prima di salutarci, Anya ci racconta un ultimo episodio.

“Siamo stati sempre in una zona abbastanza sicura”, dice, “le bombe erano sempre cadute a un paio di chilometri da noi. La sera del 31 dicembre, però, una bomba ha colpito a circa 300 metri dal nostro locale. Il rumore è stato lacerante! All’inizio volevo andare a vedere, poi ho provato un enorme paura per poi scoppiare in una risata isterica. Dopo per diverse ore non riuscivo a riprendermi, non sentivo più niente. Siamo stati fortunati a sopravvivere, l’unica perdita è stato il dehor esterno, che è andato in frantumi a causa dell'onda d'urto. Le vetrine dei negozi vicini e diverse finestre degli appartamenti sopra di noi, sono andate in mille pezzi. Nei giorni successivi fu pesante andare al lavoro, camminare in quella strada del centro ricoperta di vetri era spaventoso. 

Ora continuiamo. Non sai mai cosa ti aspetta tra un mese e cosa accadrà tra due, ma tutti abbiamo imparato a adattarci rapidamente alle nuove circostanze, cambiare i piani in un giorno e non cedere mai alla disperazione”.

 

Bogdana Ruda/Andrea Olimpi

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