“Salivo sul Landini al mattino presto. Faceva già caldo. Mia moglie mi dava una borsa con dentro un bottiglia di acqua e menta. Oppure di acqua con un po’ di limone spremuto e zucchero. Tiravo giù la barra falciante e iniziavo a tagliare l’erba.”
Matteo all’anagrafe, Materìn per il resto del mondo, è un ragazzone di ottantadue anni. Gli occhi raccontano per lui. La sue mani, da un po’ di anni, si sono prese la libertà di muoversi senza chiedere permesso. Con leggerezza, cerca di appoggiare alle labbra quella tazzina di caffè che traballando si avvicina sempre di più.
“Mi piaceva il profumo. Annusavo l’aria come adesso sento questa del caffè. Ero avvolto. L’erba appena tagliata sa di estate e io mi sentivo un re sul trattore. Da solo, tagliavo interi campi. A volte pensavo a quando falciavamo tutto a mano, io ero ancora giovane, ma i miei hanno passato l’intera vita a fare tutta quella fatica. E’ faticoso, sa? tagliare a mano. Poi sono arrivati i trattori, le imballatrici, i girelli … ma lei che mestiere fa?”
Sorride incuriosito. Mi accorgo della piccola cicatrice sulla guancia. “Sono contento comunque di aver imparato da ragazzo a usare la falciatrice a mano. Anche perché tutte le volte, fatto il primo giro, dovevo scendere dal trattore e tagliare bene l’erba negli angoli oppure ai bordi delle bialere. La lama doveva essere ben affilata, allora prima di partire mi fermavo dietro casa, dove tenevo tutti gli attrezzi. Prendevo il martello e appoggiando la lama sullo spigolo dell’incudine la battevo ben bene fino a che non vedevo la giusta filatura. Per provarla passavo il dito sopra, ma di traverso sia chiaro, perché nel verso della lunghezza ti tagli e ti fai male. Mi aveva insegnato mio nonno. L’erba rimaneva sparpagliata sul prato per delle belle ore, io andavo a casa per fare altri lavori e poi tornavo con il girello per dare una girata al fieno, in modo che diventasse tutto secco. Quasi sempre ero a torso nudo. Avevo i muscoli anche senza fare ginnastica in palestra.” Mi chiede se lo accompagno fuori. Il cortile della casa di riposo ha ancora una panca libera per noi. E c’è il sole.
“Quando il fieno era secco, partivamo tutta la banda: io, mia moglie, mio fratello che non si è mai sposato, l’altro mio fratello che veniva ogni tanto ad aiutarci, i miei nipoti, finchè sono stati piccoli e i miei vicini di casa. Ci aiutavamo una volta per uno. Le donne e i bambini dovevano rastrellare. Noi uomini invece lavoravamo con due trattori. Con uno si facevano le file di fieno e si continuava a girare fino a quando tutto era raccolto in modo allineato; sull’altro si attaccavano l’imballatrice e il carro, il tamagnun per capirci. Man mano questo trattore faceva uscire le balle di fieno, quelle rettangolari, chi era sul carro doveva sistemarle bene una sull’altra, se sbagliava quando diventava pieno c’era il rischio di farle cadere tutte. Una volta ci è successo, mentre eravamo quasi a casa, più di metà cadute in mezzo alla strada, non le avevamo anche legate bene. Capitava anche quello. Man mano l’imballatrice andava avanti, chi era dietro con il rastrello doveva raccogliere tutto quello che rimaneva, per non sprecare niente. Mia moglie era una macchina, dove passava lei alla fine non restava più in giro neanche un filo di fieno! Delle volte iniziava a piovere, un pasticcio. Bisognava smettere e fare dei covoni. Poi il giorno dopo si tornava, si allargava di nuovo, si faceva seccare e si sperava che non diventasse ammuffito. Comunque, facevamo due o tre tagli ogni estate. E poi mi piaceva alla sera, arrivati a casa, ci passavamo le balle uno all’altro e sistemavamo tutto bene nel fienile sotto al portico. Finito, si faceva una lunga tavolata e mangiavamo tutti assieme. Bei tempi. Ma non ho capito una cosa, lei che mestiere fa?”