10 ottobre 1959, Saluzzo. Nella stagione in cui il Torino, che del “Grande” di Superga aveva ormai ben poco, retrocedeva in Serie B, si affacciava al mondo Alberto Silvestro. Figlio di Angelo, alpino, aveva militato nelle giovanili del Saluzzo, che con il Toro condivideva il color granata della casacca ufficiale. Qualche anno dopo, il passaggio alla Saviglianese, che si apprestava a vivere i suoi anni d’oro coi “Maghi”.
Ma il calcio non era la sua strada, che si era messa presto in salita. Quand’era ancora adolescente, in una giornata di neve un incidente strada gli aveva tolto subito la nonna e, nel giro di poco tempo, il padre. Alberto era in quella macchina, ad assistere impotente.
La perdita non lo aveva piegato, anzi, lo aveva costretto, da figlio unico, a darsi subito da fare.
In primis aiutando la mamma, Maria Teresa, che senza più l’aiuto del marito si era trovata a gestire da sola la trattoria “Ciabot d’Gianduja” a San Lazzaro di Saluzzo, negli stessi locali oggi affidati alla pizzeria “Il trio”.
Teresa, classe 1938, era poi passata a cucinare alla casa di riposo “Tapparelli” di Saluzzo, Comune dove tuttora risiede. Nel frattempo, Alberto si apprestava a rispondere alla chiamata alla leva militare negli Alpini. Un’esperienza che gli aveva fatto incontrare Massimo, divenuto presto il socio con cui aveva poi avviato un pub nel centro storico di Cuneo. E poi, sempre durante la naja, tanti altri amici, divenuti presto “storici”.
Una volta finita la leva, lo “spirito Alpino” era rimasto dentro di lui. Uno spirito votato ad impegnarsi in iniziative di volontariato di vario tipo, spesso aventi a che fare con la montagna e in compagnia dei suoi amici di sempre. Amicizie consolidatesi soprattutto in Val Varaita, meta preferita anche per la raccolta del genepì.
Una raccolta sobria, assurta quasi a un rito, sempre fatta con buon senso: senza strappare radici e senza ricavarci nulla fuorché tanti sorrisi condivisi. Seguendo una ricetta speciale, carpita a un anziano di Chianale, che gli narrava come un tempo i montanari ne raccogliessero a kg in grandi ceste di vimini caricate sulla schiena. E da lì fino a Sampeyre, per la vendita al mercato.
Eppure, nonostante la passione per cibo e distillati, non era la cucina la sua strada. Alberto, spirito dinamico, amava soprattutto muoversi, camminare. Anche (e soprattutto!) nei momenti più duri.
Lo testimonia, tra tutti, l’itinerario per Santiago, percorso da solo nel 2016, un anno prima di aver contratto un tumore, come se già presagisse di doversi fermare (o meglio, rallentare, cosa a cui era poco abituato).
E poi, qualche anno dopo, una gita sulla Bisalta, compiuta assieme all’ex moglie Alessandra (medico, che qualche anno dopo l’avrebbe assistito nel reparto covid a Saluzzo) ed i suoi amici di sempre, realizzata alla fine del ciclo di chemioterapia e “progettata” mentre era ricoverato per l’intervento chirurgico al “Santa Croce” di Cuneo. Tra le varie mete, l’aveva scelta perché era la montagna che meglio vedeva dalla stanza d’ospedale.
Ad appassionarlo molto era anche il suo lavoro, che lo teneva impegnato tutti i giorni ancora adesso, a 66 anni.
Una passione che si autoalimentava come una dinamo. “Alla fine di ogni ciclo di chemio – ricorda il figlio Andrea -, usciva in fretta dall’ospedale oncologico Gradenigo di Torino: verde in volto, ma subito (la sera stessa!) pronto a rientrare nel cuneese per rifornire i suoi clienti”, pettinatrici e barbieri sparsi in tutta la provincia, con i quali aveva un rapporto umano, familiare, capace di resistere alla concorrenza di aziende ben più consistenti. “L’unico crollo psicologico - continua Andrea - lo aveva avuto alla fine della chemioterapia, quando l’oncologo gli aveva prescritto un anti-coagulante che gli impediva di andare in montagna nel weekend”.
La sua azienda, la Trico Service Snc, Alberto l’aveva fondata ad inizio anni ‘90 a Mondovì, assieme al socio Claudio Pavarino. Piccola, “familiare”, appunto. Ma ambiziosa.
A spronarlo fu Mario Vallesi, fondatore di “Modus Profumerie” (oggi “Naima”). Oltre alla passione per il commercio, Mario ed Alberto condividevano quella per la montagna e l’impegno sociale. Non a caso, nel 2005 fu proprio da un trekking nelle valli dell’Everest che Vallesi decise di fondare l’associazione “Progetto Nepal”, avente come primo obiettivo la realizzazione di un presidio sanitario nel piccolo villaggio di Nunthala.
A questo seguirono molte altre iniziative, tra cui la ricostruzione di una scuola distrutta da un terremoto.
Lo stesso terremoto che, nel 1980, spinse Alberto a partire come volontario in Irpinia.
E lo stesso terremoto che, nella notte dell’8 settembre 2023, causò la morte a quasi 3000 persone residenti nelle zone montuose vicino a Marrakech. Fu questo tragico avvenimento a spingere Marco Ramotti, ex-professore ed oggi assessore a Torre Pellice, a ideare con l’associazione CIP una 5 giorni di trekking solidale in Marocco, volta a contribuire alla ricostruzione di un rifugio, rinominato emblematicamente RESTO (acronimo di “Résilient Ecocamp Solidaire Toubkal Ouirgane”). Un’esperienza singolare, immersiva, a diretto contatto con i villaggi berberi più colpiti.
Una 5 giorni che Andrea, figlio unico di Alberto, organizzò aggregando nell’ottobre 2024 una comitiva con il CAI di Fossano, per poi replicarla l’anno dopo, lo scorso novembre, in collaborazione con l’associazione Makala di Saluzzo.
A quest’ultima aveva preso parte anche Alberto, entusiasta di condividere 5 giorni in mezzo a delle montagne mai esplorate, portando il suo pezzetto di solidarietà. Tra le tappe, la mattina del 19 novembre prevedeva l’ascesa sul monte Toubkal, 4167 mt, la montagna più alta di tutto il Nord Africa. Un’escursione non particolarmente difficile, se non per brevi tratti esposti e un’altitudine considerevole. L’anno prima, assieme al figlio Andrea, era arrivata in cima anche Kikki Sordella, escursionista fossanese di 79 anni.
Questa volta c’era più neve, ma le condizioni meteo erano ottimali. Entusiasta e fraterna, tra un “fischia il vento” e “bella ciao”, un thè caldo e qualche dattero condiviso in numerose soste di “acclimatamento”, la comitiva era giunta in vetta all’alba, godendosi uno spettacolo unico.
Tra tutti, il più commosso sembrava proprio Alberto, come testimoniano le lacrime immortalate da un video di Andrea. Padre e figlio, gli amici, le guide locali, tutti stretti in una bellezza indescrivibile, sublimata dal sentirsi parte di una fatica condivisa. Quella che azzera le differenze, inaugurando spesso amicizie solide come la roccia. A 4000 mt, dove la parola è, per forza di cose, misurata. Dove il silenzio riempie vuoti dei pieni accumulati in pianura. Dove ci si saluta e ci si rispetta sempre.
Quel rispetto dovuto anche alla montagna, che proprio Alberto, consapevole dei rischi e dei propri limiti, aveva sempre trasmesso ad Andrea.
Quel rispetto che non gli è bastato a scampare ad una “fatalità”, perché di questo si è trattato. A discesa ormai ultimata, a pochissimi metri dal rifugio Les Mouflons, dove la comitiva aveva pernottato, ad Alberto è costata la vita. Una fatalità che non può cancellare il sorriso, meraviglioso, che lo aveva accompagnato per tutta la vita, aiutandolo a superare le “cime” più dure.
Di escursioni, tra le valli del cuneese in primis, ne aveva fatte tantissime, anche ben più impegnative. Mai così in alto. Mai così felice.
Caro papà, mi perdonerai se ho usato la terza persona: uno stile distaccato, giornalistico, ma diversamente non avrei retto. Sarei stato troppo coinvolto, imparziale. In questi casi dicono si debba usare più la testa, la ragione, per non darla troppo vinta al dolore. Ci sto provando, ma non è facile. È una montagna per la quale non mi sento attrezzato.
Per fortuna so dove andarti a cercare: tra le cime più belle, i tuoi amici di sempre, il Brasato al Barolo di nonna, le radici di Genepì, le iniziative solidali, le partite del Toro. Alla prima, aggrappato sulle tue spalle, vi assistetti già in Curva Maratona. Avevamo perso, ma era tutto bellissimo. Sicuramente, più sugli spalti che in campo. Da lassù, sulle tue spalle, era tutto più grande. Anche quelle montagne che da piccolo mi incutevano un po’ di timore, ma che col tempo ho imparato ad amare visceralmente.
Nel bene e nel male, ho vissuto con te le esperienze più intense. E con te continuerò a viverle. In alto, sempre. Perché “la più bella la dobbiamo ancora scalare…”. Questa volta, ad aspettarmi in cima, ci sarai tu.
Andrea















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